Ritorno a Londra e piombo nella sindrome degli ormoni, che, spietati, non mi fanno godere del sole, dei parchetti in fiore, del giorno di San Giorgio, e invece mi fanno dormire, poltrire, agonizzare, pensare di sparire.
E’ normale: le donne, si sa, hanno questo umore altilenante, che le rende affascinanti. Io però, di questo su e giù emotivo, farei benissimo a meno. Poi penso ai massimi sistemi e mi convinco che, se alla fine non siamo contenti, è tutta colpa dello stress metropolitano e dell’iperbenessere della civiltà dei consumi. C’è molto, troppo in offerta e non ce ne accorgiamo, o comunque, non ci accontentiamo. Io no che non mi accontento!
E la maionese impazzisce, i capelli non tengono la piega e le piante si seccano…
Cammino col broncio e mi fermo davanti alla vetrina del librivendolo. Siamo noi a trovare i libri o sono loro a trovare noi?
Che importa? Per sole £3.50 la copia anastatica del diario vittoriano di Adelaide Pountney è mia.
Nel diarietto, datato 1864/65, ogni giorno dell’anno è illustrato da vividi schizzi, l’immediatezza dei disegni di Adelaide, corredata da poche parole di commento, ci riporta ad un mondo e ad un’epoca lontani, in cui non esistevano il femminismo e gli antibiotici, le gonne ampie, limitando i movimenti, si inzaccheravano di pioggia e fango e un raffreddore banale poteva trasformarsi in una malattia invalidante.
Come viveva Adelaide, una ventitreenne di buona famiglia? Niente ipod, internet, discoteche o palestra. I pomeriggi piovosi si passavano in casa a dipingere, leggere, scrivere, fare marmellate o ricevere ospiti per il tè. Le pubbliche uscite erano dedicate ai corsi di disegno, tedesco e greco (!) e alle infinite visite ad amici, vicini, conoscenti e vecchie zie. Ogni tanto qualche festa, qualche concerto d’organo o pianoforte, un salto in città per un taglio di capelli (giusto le punte), una visita dal dentista o dal dottore per farsi sentire i polmoni, l’acquisto di nuovo cappellino, un libro in prestito dalla biblioteca o una lettera da imbucare. Quotidianamente, salvo maltempo, Adelaide faceva una passeggiata, dopo pranzo o dopo cena, al mare, nei boschi, in campagna oppure fino al parco, per sentire la banda suonare. E, qualche volta, lei o le sue sorelle, prendevano un treno sferragliante, da sole, per andare ospiti da qualche amica. Una specie di avventura: lo scompartimento scomodo ed angusto e il giro dei saluti a chi restava, come se si andasse lontanissimo.
Infine, di domenica, la nostra eroina andava in chiesa, anche due volte, con la stesso entusiasmo con cui oggi si va allo stadio o ad un concerto, perché, per i vittoriani, ascoltare sermoni di oltre 40 minuti era non solo un dovere per l’anima, ma anche un piacere per le orecchie, specie quando l’oratore era carismatico e capace. E per godersi meglio lo spettacolo si pagava una quota, riservando il proprio banco, o il proprio palchetto, come a teatro.
Giornate di altri tempi, che con il nostro metro di valutazione moderno si potrebbero definire lente, ripetitive e monotone, ma in cui forse si apprezzavano di più le cose di ogni giorno che noi diamo per scontate. E magari, una tisana di melissa bastava a calmare il malumore.