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eleventypes

eleventypes
Giorno libero e pioggerellina fina che viene giù intermittente. Per uscire mi metto la magliettina vintage, quella bianca anni sessanta, con le paillettes madreperlate, e la sciarpa di seta svolazzante, da morte del cigno. Pranzo a South Kensington con l’amica americana e quella francese per discutere di un progetto professionale. Siamo ancora in alto mare, la francese finché non vede non crede, l’americana punta ottimisticamente sulla vision, mentre io la butto sul pragmatico. Staremo a vedere, comunque il brunch era molto buono e il padrone della crêperie ci ha anche offerto una sua creazione omaggio, la crespella col cioccolato bianco e le fragole. L’amica americana mi ha poi invitato a casa sua. Ci dovevo restare una mezzoretta, ma chiacchiera chiacchiera si son fatte le 6! Questo non mi ha impedito di recarmi in centro per le commissioni improrogabili che avevo programmato, nonché avventurarmi fino a Old Street per un vernissage.
La galleria straripava di gente e sembrava un vagone della tube nell’ora di punta. Mi sono intrufolata, ma non riuscivo a vedere le opere, solo spalle, mani gesticolanti, visi accaldati e bicchieri di vino sgocciolanti, branditi qua e là mentre si chiacchierava d’altro. Sono uscita quasi subito, per evitare la claustrofobia. Tuttavia non è stato un viaggio a vuoto. Infatti ho incontrato uno dei dieci fotografi internazionali selezionati da Aaron Schuman per Saatchi magazine, felicissimo della recensione che avevo scritto su di lui il mese scorso. E ho anche scoperto che, sul blog d’artista, non solo ha linkato il pezzo, ma lo ha trasformato, sovrapponendo 11 righe ad uno dei suoi bellissimi lavori…

© R.Cracknell
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The Edwardians in Colour

Il mondo moderno. Siamo abituati a pensare che si sia colorato con il boom economico, dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che tutto quello che c’è stato prima si fosse svolto in toni più o meno drammatici, tra contrasti di bianco e nero, seppia o scale di grigio.
Invece, i colori c’erano già, li avevano inventati i Fratelli Lumière, nel 1903, grazie ad un procedimento all’amido di patate, chiamato autochrome.
Quando la nuova tecnica fu rivelata pubblicamente, il banchiere Albert Kahn, allora l’uomo più ricco d’Europa, fu così entusiasta di ciò che vide, da voler creare un inventario fotografico di tutte le meraviglie del pianeta.
A sue spese, Kahn inviò 14 fotografi in giro per il mondo. Furono scattate più di 72.000 foto e oltre 100 ore di filmati autochrome. L’uomo morì in miseria, nel 1940, dopo essere stato colpito dalla crisi del ’29 e aver dichiarato bancarotta nel 1934. Fortunatamente, il suo Archivio del Pianeta fu acquisito dallo stato francese e preservato in un museo. Proprio in questi giorni, il quarto canale della BBC dedica una serie di cinque puntate all’inestimabile lascito. 
E’ incredibile come le foto a colori riescano a rendere tutto più vivido e vicino. Sembra che 100 anni non siano passati, che i soggetti immortalati siano ancora tra noi, che sia ancora possibile camminare in una Piccadilly deserta, stringere la mano al venditore serbo di limonata, parlare a quella donna irlandese, che sorride da sotto lo scialle, udire il fruscio dei variopinti abiti di seta indossati dagli attori di Hanoi. Stesse emozioni sorprendenti, anche se stavolta i colori sono stati sapientemente e pazientemente aggiunti a mano, ci vengono regalate da una serie di diapositive da lanterna, conservate all’Horniman Museum, a sud di Londra.
Il fortuito ritrovamento del diario di una ragazzina inglese, Marjorie Bell, che, assieme alla madre e la zia, ebbe la fortuna di visitare il Giappone nel 1903, è il punto di partenza della mostra "Journey through Japan", un viaggio romantico e affascinante, in cui parole e immagini sanno rievocare realtà altrimenti perdute e lontane.

edwardians in colour

Credits:
Roger Dumas – Piccadilly Circus © Musée Albert Kahn
Anonimo – Monte Fuji © The Horniman Museum

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À Rebours

Non avrei mai pensato che la mia giovinezza fosse ormai datata…magari un pochino vintage, ma certo non da museo o retrospettiva. Eppure, in soli 2 giorni, mi son rivissuta infanzia e adolescenza, tuffi al cuore e mille ricordi provocati da brandelli di storia esibiti in una vetrina o appesi al muro con una targhetta vicino!
Ieri, ad esempio, sono stata con una mia amica al V&A Museum of Childhood. Il pretesto era quello di vedere la mostra di incisioni di Picasso, poi però abbiamo passato ben 2 ore ad entusiasmarci tra giochi e giocattoli di altri tempi.
C’era un pò di tutto, bambole del settecento, orsetti di pezza vittoriani… ma anche cose più recenti, come i playmobil, il meccano, il piccolo chimico, i pupazzetti della fisherprice, il mastermind e… 

kermit
Kermit!
Oggi, invece, sono uscita da lavoro che c’era il sole ed ho pensato che era un peccato tornarsene subito a casa, perciò mi son fatta una passeggiata fino all’ICA, per andare a vedere una mostra sull’Inghilterra Tatcheriana dal titolo: The Secret Public (The Last Days of the British Underground 1978 – 1988).
Girovagando tra grafica, fotografie, installazioni e video, ho trovato e ritrovato alcune chicche, come le lastre incise da Peter Saville per la stampa della copertina del disco dei Joy Division (quando il binomio vinile/arte era ancora possibile), un filmato dei Duvet Brothers con la colonna sonora dei New Order [che mi son vista 2 volte con cuffie premute sui timpani] e un video documento di Hey! Luciani: The Life and Codex of John Paul I, opera teatrale con testi e musiche dei The Fall messa in scena nel 1986 (ho ancora il 45 giri di quella canzone).
E a vedere il video ho pensato che sì, anche se non ho mai suonanto la chitarra, a 18 anni ero proprio come Brix Smith, acerba, platinata, nera e borchiata!
Prima di lasciare la galleria, mi sono fermata a leggere i frammenti di vita narrati nella ormai polverosa installazione di Stephen Willats, Living like a Goya (1983). Quelle facce gothic nelle foto potrebbero essere degli amici perduti, quei pizzi e quelle collane sono gli stessi che vorrei ancora portare, che comunque non riesco a buttare. Perchè se il guardaroba si è colorato nel tempo, il nero è ancora una dominante, un lascito difficile da ignorare, un’impronta nel cuore.
Il succo di anni vissuti contro, arte e vita confusi assieme, come in un gioco, l’ho scoperto in questa frase:
"I look a lot better if I’m really dressed up and you can become more outrageous in every way and you seem to be able to get away with doing more things when you’re dressed up as well…"

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Yujiro

still life
Forse mi sbaglio, ma ho come la certezza che la primavera angla sia vicina, lo sento nell’aria, lo percepisco da quell’ora e mezza di luce in più, lo noto dal fatto che le commesse si mettono ad insaponare le vetrine dei negozi, lo leggo nei mazzi di daffodeli in vendita da Marco & Spensiero…
La bimba coreana parte, torna in Corea, per lo meno fino a giugno. Per salutarci degnamente, la bimba mi ha portato in una galleria giappa, ai confini della realtà.
Non so se siete mai stati a Bermondsey… su wikipedia la paragonano ad un sobborgo di Lagos. Non mi sento di essere altrettanto spietata, certo è che i casermoni popolari e un certo abbandono intorno alla vecchia zona industriale rendono il tutto abbastanza desolato, specialmente di sera. Infatti, l’unico posto decente per prendere qualcosa da bere, alla fine era un fast food di infima categoria, altrimenti la scelta si riduceva al take away deserto o al kebabbaro volante.
Cammina, cammina, dopo la sosta onion rings e ketchup, siamo arrivate alla galleria giappa, che trovasi al 5° piano di una vecchia fabbrica, dotata di ascensore d’epoca, di quelli con le porte a serranda, tipo anni ’30.
Stasera si inaugurava la mostra di un’artista coreana, tale Seunghee Kang, la quale ha un modo molto originale di dipingere e di raccontare le sue esperienze in terra angla. Poi, in un angolo, c’era una porta che immetteva in una finta stanza, con una poltrona e un altoparlante che ci gracchiava dentro voci e suoni. Un’installazione sonora di John Hughes, che mi ha un pò deluso, perché so che lui sa far di meglio e ‘sta stanzetta sbilenca, con le tendine e la carta da parati anni ’50, francamente, mi sembrava una cosa banale, già vista. Ma i vernissages, si sa, sono l’occasione per socializzare, incontrare o re-incontrare gente, scambiarsi indirizzi email, che non si sa mai, magari c’è un’altra mostra, magari ci si prende un caffè, magari…
E poi i vernissages sono anche posti dove la gente va per bere e mangiare, e questo mi ha sempre dato un pò sui nervi, perché forse il bicchierino di vino in mano mentre ci si immerge nello spazio di un quadro ci sta pure, ma lo scofanamento del buffet modello assalto delle cavallette è di pessimo gusto. Stavolta però, surprise-surprise, il buffet era giappo e tutto a base diumeshu (prugne) sia dolci che salate, molto zen a vederle sul vassoio di pietra nera, ma poco affini ai miei gusti e al mio palato.
Invece abbiam gradito il Choya, vino giappo alle umeshu molto buono e dolcino, 15 %vol. però… La bimba coreana ha bevuto appena due sorsi e sulla metro mi continuava a chiedere se era rossa in faccia, che si sentiva ubriaca. Hahahaha! Mi mancherà.

Image: ©Seunghee Kang – Still Life 2006 
Drawing with shining crushed rock on canvas 
150cm x 100cm