Il bicentenario della morte di John Keats

john keatsIl 23 febbraio si celebra il duecentesimo anniversario della morte del poeta romantico John Keats.
Keats era malato di tubercolosi e aveva passato gli ultimi cinque mesi della sua vita a Roma, dove si era recato nella speranza che il sole del Mediterraneo potesse alleviare le sue condizioni.
Il poeta era nato ed era stato battezzato nella City di Londra nel 1795. Inizialmente aveva tentato di diventare medico al Guy’s Hospital, ma poi aveva abbandonato gli studi per dedicarsi alla poesia.
Keats si era trasferito allora ad Hampstead (che ai tempie era poco più di un villaggio fuori Londra) e aveva alloggiato a Wentworth Place (ora Keats House) dal dicembre 1818 al settembre 1820.
Ad Hampstead, Keats si circondò di amici e conobbe Fanny Brawne, il suo grande amore, per la quale scrisse la maggior parte dei componimenti che lo hanno reso celebre.
Essendosi ammalato di tubercolosi, il poeta lasciò l’Inghilterra per recarsi in Italia, e fu a Roma che scrisse “Bright Star”, una delle sue poesie più famose. Purtroppo, il clima non gli giovò come aveva sperato ed il giovane morì il 23 febbraio 1821 a soli 25 anni.
Gli amici Joseph Severn e Charles Armitage Brown si occuparono dell’epitaffio sulla tomba nel cimitero acattolico di Roma, presso la Piramide Cestia.
La tomba non porta esplicitamente il nome del poeta, ma è incisa con le parole dettate da Keats sul letto di morte: “Here lies one whose name was writ in water” (“Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”). Evidentemente Keats, che non era mai stato accolto favorevolmente dalla critica contemporanea, riteneva di non poter ottenere alcuna fama postuma.
Tuttavia, la sua morte così precoce e drammatica, diede vita alla leggenda romantica della malattia fatale, causata dal rifiuto e dalle critiche negative. Un altro poeta inglese, Percy Bysshe Shelley, celebrò la dipartita di Keats nell’elegia Adonaïs, scritta qualche settimana dopo il funerale, e che contribuì alla sua fama in Europa.

Virtual_KeatsGrazie agli esperti dell‘Institute for Digital Archaeology, che lo hanno “ricreato” in digitale, Keats può rivivere virtualmente. Linguisti, curatori e fisici hanno lavorato insieme per riportarlo in vita, restituendogli voce, volto… e anche i suoi vestiti!
Per la voce e la dizione ci si è rivolti a specialisti vocali, mentre, per la creazione in 3D, il team si è basato sulle maschere realizzate dopo la morte del poeta, e sui ritratti in miniatura, eseguiti mentre era in vita, tutte fonti di altissima qualità. Gli esperti si sono invece divisi sulla scelta degli abiti, perché gli aneddoti raccontano che Keats aveva adottato uno stile continentale durante il suo soggiorno romano. Hanno comunque potuto attingere alla vasta collezione di abiti del Victoria and Albert Museum di Londra.
Keats aveva pubblicato dozzine di poesie nel corso della sua breve esistenza, ma sarà “Bright Star” ad essere recitata dal poeta virtuale, proprio nell’anniversario della sua morte, e nella stessa stanza dove spirò, nella casa al n. 26 di piazza di Spagna, che ora è un museo.
Ed è la Keats-Shelley House a Roma a promuovere una serie di iniziative digitali, per commemorare la morte del poeta.
Oltre all’attesa apparizione del John Keats generato al computer, che reciterà il suo poema alle 18 italiane (le 17 in UK), nella stessa giornata si segnalano anche l’anteprima online di “The Death of Keats”, una video storia immersiva narrata da Bob Geldof (disponibile sul canale YouTube della casa museo) e un tour panoramico con guida dal vivo, che sarà disponibile a partire dal 23 febbraio.
Anche il Keats House Museum ad Hampstead celebra la vita, le opere e l’eredità di Keats, grazie ad una serie di eventi online, tra cui una mostra virtuale.
Si può anche seguire il bicentenario sui social, mediante l’hashtag #Keats200.

Una visita differente. A Londra riapre la National Gallery.

National Gallery

© Roberto.Trombetta on Visual Hunt / CC BY-NC

Tra le tante cose che l’emergenza coronavirus ha cambiato nelle nostre vite si può annoverare la casualità e, se vogliamo, un po’ di spontaneità.
Il distanziamento sociale significa pianificare, prenotare, mettersi in fila.
Non si può più, almeno fino a quando la situazione non tornerà normale, passare davanti all’ingresso di un luogo di intrattenimento, di un museo o di una galleria, e decidere di entrare, seguendo l’ispirazione del momento.
Tuttavia, l’arte è una terapia, che aiuta a migliorare l’umore e arricchire la nostra vita.
Ecco perché non possiamo non accogliere con piacere la notizia che la National Gallery ha riaperto finalmente ai visitatori, dopo 111 giorni di lockdown.
E’ stato il periodo più lungo di chiusura per questa famosa pinacoteca, che era riuscita a mantenersi fruibile, anche durante due conflitti mondiali.
L’ingresso è sempre gratuito, ma stavolta bisogna prenotare in anticipo un biglietto orario.
La mascherina per i visitatori non è obbligatoria (come avviene nei musei italiani), ma consigliata.
Il distanziamento sociale è in atto fin da Trafalgar Square.
All’interno, si dovranno seguire tre possibili percorsi tematici obbligatori: Arte Italiana, Arte Nord-Europea, Arte Britannica.
Nelle sale sarà possibile sostare a piacere, sempre seguendo le frecce, le regole e le distanze.
Il personale potrà decidere di far fluire i visitatori altrove, se i numeri in ciascun ambiente diventeranno eccessivi.
Per le guide turistiche con patentino, i detentori di carte ICOM e Museum Association e chi lavora o svolge volontariato nei musei, le mostre speciali non saranno più gratuite o scontate, almeno fino ad ottobre 2020.
Questo è stato deciso dal National Museum Directors’ Council, data la scarsa disponibilità di biglietti a pagamento e il danno finanziario subito dalle istituzioni museali.
Pur comprendendo le suddette ragioni, ICOM ritiene che la scelta sia in qualche modo reazionaria e non tenga conto dei più ampi vantaggi dell’accesso gratuito e reciproco, ad esempio la costruzione e lo scambio di conoscenze professionali e la promozione di un accesso più ampio e diversificato (oltre al fatto che, abbonarsi a questi schemi, ha comunque un costo annuale significativo: 89 sterline per ICOM e 94 sterline per MA).

Il Florence Nightingale Museum di Londra è in pericolo

Florence Nightingale 200

Florence Nightingale 200 © London SE1 Community Website

Questa settimana, sui social media, si celebra MuseumWeek, un festival mondiale dedicato alle istituzioni culturali.Ogni giorno, un tema diverso.
Il primo, lunedì, è stato #heroesMW,  per celebrare tutti quei lavoratori che affrontano la crisi del coronavirus (come, ad esempio, addetti alla sicurezza, curatori, ricercatori e restauratori).
Ma ieri si celebrava anche il bicentenario della nascita di Florence Nightingale e la Giornata Internazionale degli Infermieri.
A Florence Nightingale, riformatrice sociale che trasformò le cure mediche sul campo di battaglia durante la guerra di Crimea, promuovendo igiene e reparti dal design innovativo (per prevenire le infezioni e gestire meglio gli ammalati), non è stato dedicato solo un ospedale, creato ad hoc per l’emergenza Covid-19, ma anche un museo, che ora sta lottando per sopravvivere, poiché, dopo la chiusura per il lockdown, ha visto scomparire il 98% dei suoi finanziamenti.
Il Florence Nightingale Museum, che, dal 1989, racconta la storia di Florence e della professione infermieristica. ha sede nei pressi del St Thomas’ Hospital, lo stesso ospedale dove fu istituita la prima scuola di formazione secolare per infermieri. 
Tra i cimeli conservati nel museo, si trova la famosa lanterna, con cui, di notte, nell’ospedale di Skutari, Florence faceva visita ai soldati feriti (e che le aveva valso il soprannome di “The Lady with the Lamp”); inoltre, l’edizione originale del libro scritto da lei nel 1860, dal titolo: “Notes on Nursing.” Cenni sull’assistenza degli ammalati.
Un libro più che mai attuale, se pensiamo al moderno mantra che ci spinge a lavarci le mani spesso e volentieri, per combattere la pandemia. Un avviso che Florence aveva ribadito con insistenza: “ogni infermiera dovrebbe lavarsi le mani molto frequentemente durante il giorno… ”
Florence era all’avanguardia, perché usava dati statistici e anche grafici, per supportare le sue teorie sull’assistenza e sui servizi igienico-sanitari, ma anche perché aveva riconosciuto l’effetto terapeutico dei giardini sul benessere dei pazienti e, per questo, aveva promosso l’istituzione di parchi e giardini annessi agli ospedali.
Il museo londinese era entusiasta di poter celebrare i duecento anni della nascita di Florence ed aveva allestito una mostra speciale, “Nightingale in 200 Objects, People and Places”, che ora è visitabile online.
Purtroppo, come altri piccoli musei, che non dispongono di sovvenzioni pubbliche, adesso l’istituzione rischia di chiudere per sempre e vedere le sue collezioni disperse altrove.
Per salvare il museo di Florence Nightingale, è stata istituita una pagina GoFundMe per raccogliere denaro, ma si possono fare anche donazioni sul sito web o tramite l’invio di messaggi sms; alternativamente, si può fare shopping nel negozio online o acquistare un biglietto per visite future.

La Cultura in Quarantena

MuseumofCroydonFin dalla chiusura forzata, a causa della pandemia di Covid-19, i musei hanno lavorato dietro le quinte per definire strategie e per coinvolgere il pubblico attraverso il digitale. In pochi giorni, è comparso un hashtag sui social: #MuseumFromHome.  Questo hashtag ha rappresentato la volontà e la necessità di continuare ad educare, stimolare ed ispirare la gente durante un periodo difficile come quello della quarantena.

Senza che questo fosse pianificato, mi sono trovata coinvolta anch’io nel progetto di fare ed offrire qualcosa di diverso in risposta ad una situazione senza precedenti.
A novembre 2019, stavo cercando un’opportunità di volontariato, possibilmente in un museo locale, sia per  rendere le collezioni più accessibili, sia per migliorare le mie capacità nell’interpretazione degli oggetti.
Quando ho visto che il Museo di Croydon stava cercando qualcuno che potesse lavorare con la loro collezione e  curare una selezione di oggetti da impiegare in esperienze sensoriali tattili, ho fatto subito domanda!
Il Museo possiede un’interessante collezione di circa 300 oggetti (dal periodo vittoriano in poi) che avevano  bisogno di essere raggruppati e organizzati in scatole a tema, per offrire sessioni in gallerie o prestiti alle scuole. Ho iniziato il mio volontariato a gennaio, ed è stata un’esperienza appagante. Ho svolto ricerche sulla collezione, e, durante lo sviluppo del database, ho collegato gli oggetti a temi specifici. Tutte le scatole a tema che ho creato (e creerò in futuro), contengono una selezione di oggetti e schede informative, con un’immagine dell’oggetto, il numero di catalogo e un breve contenuto.
Ero molto entusiasta alla prospettiva di inaugurare la mia prima valigetta a tema in un evento speciale che doveva tenersi il 27 marzo. Purtroppo, questa serata non ha potuto aver luogo, a causa dell’emergenza Covid-19. Tuttavia, mentre il Museo è chiuso al pubblico, questa selezione di oggetti è ora disponibile in forma digitale, così come la mostra a cui sono legati.
Fortunatamente, posso continuare a svolgere il mio volontariato da casa e creare altre scatole virtuali, fino a quando il Museo non riaprirà e i visitatori avranno l’opportunità di manipolare gli oggetti che ho selezionato. Questa esperienza virtuale ovviamente non può sostituire quella tattile sensoriale, ma è comunque un modo intelligente per esplorare il ricco patrimonio di Croydon, coinvolgendo il pubblico da casa, che può anche contribuire con storie e riflessioni personali.

Il cibo e l’arte e il nuovo decennio…

Finisce un anno e ne comincia un altro e io mi sento come Giano bifronte, che guarda in due direzioni, molto diverse, e si sente ancora immerso nel decennio appena concluso, mentre una faccia è già orientata al futuro.
Del resto, la pausa natalizio-mangereccia non del tutto passata, ha radici molto antiche, precristiane. Dai Saturnalia ai riti propiziatori delle culture agricole del mondo antico.
Il tempo per quegli uomini aveva un andamento ciclico, di morte e rinascita, e seguiva il percorso del sole, le stagioni e le fasi lunari. Questa fine-inizio, con le sue implicazioni profonde, arriva fino a noi, menti moderne, a creare un po’ di ansia e aspettativa.
Allora, io vi propongo un doppio appuntamento con il passato, tra Italia e UK, per esplorare il rapporto dell’uomo con il cibo, le abitudini sociali e la ritualità.
A Roma, la mostra Pompei e Santorini – L’eternità in un giorno (fino al 6 gennaio), presenta oltre trecento oggetti, e ripercorre un arco di tempo che va dall’età del bronzo ai nostri giorni, attraverso il Mediterraneo.
A Oxford, Last Supper in Pompeii (fino al 12 gennaio) mostra un analogo numero di reperti, tra cui utensili da cucina, mosaici e resti di cibo, ed esamina il rapporto degli antichi romani (da Pompei a Londinium) con il cibo e l’agricoltura
Comune denominatore delle narrazioni è la catastrofe, che, tacita, incombe e muta il corso delle società umane.
scheletro carpe diemGli antichi Romani non avevano timore di evocare la morte, che, anzi, era un modo per ricordarsi di godere del momento e dei suoi piaceri terreni.
La filosofia epicurea del carpe diem ha sicuramente ispirato i padroni della Casa delle Vestali ad adornare il pavimento della sala da pranzo con uno scheletro coppiere (in prestito ad Oxford dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e farne così uno strano, quanto umoristico, fulcro dei loro banchetti, le cui tavole erano allietate da pietanze e bevande servite in magnifici servizi d’argento.
Pompei era rinomata per la sua produzione di argenteria.
Tazze d’argento dorate, decorate con la tecnica del repoussé, abbellite da rilievi di piante sacre (olivo, vite e mirto) sono in mostra all’Ashmolean Museum. Alle Scuderie del Quirinale, invece, si può ammirare il magnifico servizio da tavola rinvenuto a Moregine, che include sia l’argento da portata (escarium) che quello per i liquidi (potorium).
Mangiare, bere e produrre cibo erano attività consuete anche ad Akrotiri, nell’isola di Santorini.
L’antica città fu distrutta da un’eruzione vulcanica nel secondo millennio a.C., ma è probabile che la popolazione sia riuscita a mettersi in salvo e portare con sé gioielli e oggetti preziosi.
Restano, tuttavia, tazze e vasellame di terracotta di estrema vivacità e bellezza, decorate con motivi geometrici a spirale o elementi naturalistici ispirati all’ambiente dell’isola, come delfini, uccelli, bovini, fiori di croco, racemi, conchiglie.
vaso croco da akrotiriLa natura, incontaminata o modellata dall’uomo, era un elemento importante.
Si stima che un terzo delle case pompeiane disponesse di un giardino privato.
Lo spazio poteva avere funzione utilitaria, ad esempio per coltivare ortaggi o erbe medicinali, ma serviva anche come estensione della casa, per mangiare, socializzare o purificarsi.
I cittadini più ricchi potevano installare fontane ornamentali, decorate con mosaici e statue.
A Oxford si può ammirare un pescatore di bronzo, proveniente dalla Casa della Piccola Fontana; a Roma, il bel ninfeo della Casa del Bracciale d’Oro, rivestito da mosaici policromi in pasta vitrea, conchiglie e schiuma di lava.
La Casa del Bracciale d’Oro era una delle abitazioni più lussuose di Pompei. Qui, i banchetti estivi avvenivano in un triclinio aperto sul giardino, di cui il ninfeo costituiva il fulcro.
affresco giardino pompeiQuesta sala di rappresentanza era abbellita con le più accurate scene di giardino di III stile (anch’esse esposte a Roma), così realistiche da consentire il riconoscimento di diverse specie di piante e uccelli dell’epoca.
Dimore affrescate esistevano anche nell’antica Akrotiri, da cui provengono meravigliose e suggestive immagini.
La Casa Occidentale era decorata con storie di viaggi per mare, giovani pescatori e bellissime sacerdotesse occupate in rituali misteriosi.
Tra l’Egeo e il Tirreno predominava infine quella dieta mediterranea consumata ancora oggi, fatta in maggioranza di olive, noci, grano e legumi, frutta, pesce e molluschi. Ce la testimoniano resti di conchiglie, olio solidificato nel suo vaso di vetro, pani e fichi carbonizzati, anfore per il garum e per i datteri, modelli di dolci e melograni.
Sia la mostra di Oxford che quella di Roma guardano oltre l’orrore dell’improvvisa distruzione, per celebrare l’esistenza degli abitanti di Akrotiri e Pompei.
Il banchetto, per gli antichi come per noi, è l’epitome della vita (degli amici, della famiglia, dei contatti di lavoro).
Una festa che ci conduce, ebbri e sazi, alla fine e all’inizio di tutte le cose, all’avvio di una nuova gestazione.

“Elle est retrovèe/Quoi? L’eternité”

Gli autoritratti di Lucian Freud, in mostra a Londra

Nell’era dei social e della sovraesposizione, non sono un’amante del selfie. Al massimo, mi piace catturare la mia immagine riflessa in una vetrina, in uno specchio oppure la mia ombra proiettata su un muro o sulla strada.
Alla riservatezza dell’introversione unisco una certo pudore e preferisco cercare un senso estetico altrove.
Mentre sembra che in media la gente si faccia almeno due selfie al giorno, i miei autoscatti sono sporadici, significativi, affermativi.
Tuttavia, in tempi pre-digitali, mi è piaciuto collezionare foto tessera scattate con una certa regolarità, da un anno all’altro, per almeno due decadi.
Un esperimento analitico su me stessa, per registrare il passare del tempo o la caducità della giovinezza. Chissà…
L’autoritratto nasce forse come espressione del bisogno di rappresentare se stessi, cercando di capire chi siamo e come possiamo realizzarci in un’immagine pubblica. Per gli artisti, si tratta di oggettivare il Sé nello spazio circoscritto di un quadro, fissando le molteplici versioni che il tempo e le circostanze di volta in volta propongono.

E’ affascinante visitare una mostra di autoritratti. Il tema può apparire limitato e ripetitivo, ma il volto è una geografia misteriosa, che cambia alla luce e agli agenti esterni ed interni che la animano.
Così consiglio a chi si trova a passare a Piccadilly, in questi giorni frenetici di compere natalizie, di ritagliarsi un momento introspettivo e visitare la mostra alla Royal Academy, sui self-portraits di Lucian Freud.
Gli inizi sono grafici e immediati, come rapida e scanzonata è la vita di un ventenne. Basta una matita, una penna, un conté crayon. Però già si evince che per Freud ritrarre se stesso è una sfida, un modo per sperimentare mezzi e materiali, più che per scandagliare la propria interiorità. Il viso diviene un oggetto curioso e affascinante, su cui indugiare per riproporne i tratti, i solchi, i capelli, le pupille allargate sul mondo. A volte è un elemento che può infondere vita e profondità al paesaggio, alla stereotipata nitidezza di un muro vittoriano o di una lampada a gas.
Fu l’illustre nonno, Sigmund Freud, a sottolineare l’importanza dello specchio nello sviluppo psicoanalitico infantile. Per il nipote, lo specchio è un dispositivo, irriverente e indifferente, sui cui far danzare il proprio io, sorprendendo lo spettatore, spiandolo e spiandosi da una vecchia poltrona.
Si assapora una materialità tangibile nella mostra: alcuni quadri sono esposti su una superficie di tela chiara, altri emergono prepotenti dalla fisicità delle cornici. Ci sono anche quaderni di schizzi, o lavori interrotti perché contingenti, occasionali, dove il biancume del non finito racconta di interruzioni, disinteresse, o forse, difficoltà a definirsi a fondo. C’è poi la fase più avanzata, quella del colore ad olio, che non viene più steso a pennellate, ma a grumi, con lumeggiature di pesante Chemnitz White, perché, nel frattempo, il volto si è invecchiato, trasformandosi in una mappa di forza e fragilità. E l’artista scompare sotto strati di pittura.
Quantitativamente, sono più gli autoritratti che Freud ha deciso di distruggere, di quelli giunti fino a noi. Forse perché non sempre è stato capace di accettare quello che leggeva nel suo volto, oppure, perché, notoriamente riservato, non sempre gli riusciva di compensare la timidezza con l’esibizionismo.

A Londra, la mostra sul mito della città di Troia

Troy, vaso grecoDalla notte dei tempi, la mela è un frutto controverso, simbolo di bellezza, trasgressione, duplicità, maleficio, peccato. La si ritrova puntualmente in miti, leggende, fiabe, narrazioni sacre. Dalla mela di Eva a quella di Biancaneve, dai pomi d’oro delle Esperidi alla mela di Newton.
Anche la nostra storia inizia con una mela.
Eris, dea del conflitto, ne getta una d’oro per creare scompiglio nel banchetto a cui non è stata invitata.
Una triade di dee se la contende e Zeus, seccato, propone a Paride, bel principe troiano, di scegliere la fortunata vincitrice.
Era, Atena e Afrodite promettono potere, onori e beltà al giovane, ma non saranno le offerte di fortune materiali a convincerlo, bensì l’amore. Afrodite vincitrice si aggiudica la mela d’oro e, in cambio, fa incontrare a Paride la donna più bella del mondo. Peccato che quest’ultima sia Elena, la moglie del re di Sparta, Menelao. Il mito e le sue rappresentazioni si dividono tra seduzione e rapimento. In ogni caso, l’affronto subito è troppo grande e si scatena una guerra tra Greci e Troiani. Quando Omero canta le gesta degli eroi, dell’una e dell’altra parte, la guerra di Troia imperversa già da un decennio e sta per volgere al tragico epilogo, con l’inganno del cavallo, la disfatta dei troiani e la diaspora che ne seguirà: la fuga di Enea e le peregrinazioni di Odisseo.
L’Iliade, l’Odissea e poi l’Eneide, sono sopravvissute alla caduta dei regni antichi, i versi trascritti nel silenzio dei conventi, le gesta miniate nei volumi del Rinascimento, i contenuti imitati ed ammirati come modello di classicità, fino a riproporli nella bianchezza dei marmi e nella levità delle forme del revival neoclassico. I versi di Omero (e poi di Virgilio) ci raccontano la storia degli uomini, fatta di coraggio e arroganza, mettendoci in contatto con le radici più profonde della nostra umanità.
Alla fine dell’ottocento, Heinrich Schliemann, guidato dal sogno di gioventù di ritrovare la città cantata da Omero, scava nei pressi di una collina di pietre cadute a Hisarlık nella Turchia occidentale, vicino alla foce dei Dardanelli. Il mercante, improvvisatosi archeologo, nel 1873, rinviene una città antica, costituita da molti strati, e, da allora, il sito è generalmente accettato come quello della Troia omerica.
Tra i dissepolti resti, emerge anche un tesoro, quello detto di Priamo, conservato per la maggior parte al museo Pushkin di Mosca. Ancora vive ed irrisolte restano le controversie sul tesoro troiano, preso dall’Armata Russa, al tempo della sconfitta nazista, nel 1945, e tutt’ora oggetto di negoziati tesi e infruttuosi tra Berlino e Mosca. La dea Eris aleggia ancora sul bottino di guerra.
I versi di Omero ci parlano di ire funeste, abusi di potere, conflitti mortali, vulnerabilità e bisogno di empatia. Storie che si ripetono e che rendono il mito attuale.

Troy: mith and reality, è in mostra al British Museum, fino all’8 marzo 2020.

Grattacieli a Londra

James Burns skylineQuest’autunno londinese è stato molto umido, soprattutto rispetto agli anni passati.
E’ stata una stagione eccezionale per i funghi, una pacchia per gli appassionati micologi.
Ho visto funghi spuntare ovunque, anche di strani, persino in anonime aiuole cittadine.
Un po’ come i grattacieli a Londra, che ogni giorno ne tirano su uno.
Se guardate il banner del mio blog, potete vedere un panorama ormai obsoleto.
Avevo scattato quella foto in SE4, dal tetto dell’università, quando ero da poco arrivata a Londra, nel 2004. Si vede l’iconico orologio dell’ex edificio del comune di Deptford , costruito nel 1905, e poi, più in là, lo skyline della City, con il Gherkin e Tower 42. E basta.
A quei tempi, Il 30 St Mary Axe (soprannominato ufficialmente Gherkin, ossia cetriolino) aveva suscitato notevole clamore. Dopo oltre una decade, nessuno ormai ci fa più caso.
Infatti, non solo è considerevolmente basso, (solo 180 metri) rispetto ad esempi edificati più tardi, come lo Shard (310 metri), ma oltretutto, poverino, è stato letteralmente sepolto da una selva di pinnacoli vari, che lo nascondono ormai alla vista dalla maggior parte delle angolazioni.
Tra i nuovi nati, ricordiamo the Cheesegrater, il 20 Fenchurch Street, the Scalpel e lo Skygarden, grattacieli il cui impatto fisico sulla città si può definire in un certo senso drammatico.
Adesso, una mostra fotografica, racconta il mutevole orizzonte londinese.
“London From the Rooftops – A Decade of Change”, del fotografo James Burns, aprirà il  19 novembre, alla galleria Steel Yard, proprio a due passi da una delle prime vette storiche di Londra: il Monument.
Burns ha fotografato il paesaggio in continua evoluzione della capitale, documentando, attraverso incredibili fotografie panoramiche, quanto la città sia cambiata negli ultimi dieci anni.
I grattacieli sono immortalati al mattino, avvolti dalla nebbia, oppure al tramonto, funestati da tempeste elettriche oppure rasserenati da arcobaleni improvvisi.
Mentre, agli inizi del secondo millennio, si tendeva per lo più a demolire torri di alloggi popolari anni ’60, immediatamente dopo l’annuncio delle Olimpiadi (2005), l’edilizia cominciò a subire un cambiamento significativo, tra aree destinate alla rigenerazione, nuovissimi complessi di uffici e appartamenti di lusso, su una scala così ampia, che non si ricordava dai tempi del secondo dopo guerra, e, che, a volte, sembra essere sfuggita di mano.
E’ difficile trovare, almeno nella vecchia Europa, la stessa varietà dinamica dell’architettura di Londra. Che ci piaccia o no.

 

Potete seguire James Burns su Instagram a @londonfromtherooftops

L’arte come esperienza. La mostra londinese su Lee Krasner.

LeeKrasner_BarbicanArtGalleryLa casa al mare che i miei affittarono per quasi un ventennio, era corredata da qualche relitto del passato, tra cui: una vecchia lavatrice, un tavolo da giardino sgangherato e una lampada cilindrica, di carta spessa, dipinta ad olio, in stile astratto, probabilmente realizzata negli anni ’50 e coeva all’abitazione.
La sera si accendeva, sotto un arco a muro, ed emanava una luce soffusa, frustata e punteggiata da macchie e spruzzi di colore nero, rosso e blu.
Questa lampada, era rimasta sepolta nella mia memoria di bambina, ma si è affacciata alla mia mente oggi, mentre visitavo la retrospettiva di Lee Krasner al Barbican. Oltre alle sgocciolature della lampada, mi sono venuti in mente anche gli astrattismi multicolori di materiali organici e non, della serie “Storie al Microscopio”, riprodotta a colori sgargianti sui pacchetti di cerini Minerva, quelli che comprava mio papà, sempre all’epoca della casa al mare.
Queste associazioni, molto profane, di ricordi lontani e arredamenti mid-century, sono riemerse mentre mi aggiravo nella galleria brutalista del Barbican. Fuori luogo, forse, ma la loro comparsa improvvisa è stata un’emozione viva, pulsante, reale.
LeeKrasnerI dipinti di Krasner sono schermi dinamici che affascinano e respingono, impulsivi ed esplosivi, astratti e organici. Possono essere infinitesimali ricami di strati di olio sulla tela, ritratti enigmatici, corpi cubisti, lacerti di colla e carta, infiorescenze di carne e sangue, brandelli di terra e neve gettati su una tela nelle notti insonni. Astrazioni autobiografiche, che raccontano di fughe, tempeste, plessi solari bloccati, rabbia, ma anche di ritmo, gioco, leggerezza, rinascita, liberazione.
Un’esistenza passata a rivendicare il diritto ad essere se stessa, al di là del sesso, della religione, dello stile e della pesante eredità di essere considerata, almeno per un periodo, semplicemente la signora Pollock.

 

La mostra di Olafur Eliasson a Londra

olafur_eliasson_stardustEra la fine di settembre 2003 quando approdai a Londra per rimanerci in pianta stabile (non avevo idea se si trattasse di un trimestre o più a lungo, certo non immaginavo tutti questi anni). Avevo un’idea astratta dell’autunno londinese, me lo immaginavo tutta nebbia e umidità.
Invece, mi ritrovai a vivere una stagione dorata, graziata dalle giornate di sole dell’Indian Summer e dalle bellissime cromie delle foglie, in procinto di cadere.
Era l’inverno che non conoscevo ancora, con le sue albe ritardatarie, la luce elettrica alle 8 di mattina, il buio che ti piombava addosso alle 16, le occasionali spolverate di neve, il vento gelido.
Fu proprio in quel primissimo inverno, davvero grigio, che un sole artificioso e artificiale rischiarò il mio tempo libero.
Alla Tate Modern, nella Turbine Hall, l’artista Olafur Eliasson aveva installato The Weather Project. Il concetto era semplice: un semicerchio di luce, riflesso in uno specchio, e un po’ di foschia per ammorbidire lo spazio.
La sala si trasformava in un palcoscenico, dove la gente si fermava a guardare, si sdraiava sul pavimento, si metteva a fare yoga. Era solo uno specchio e un semicerchio di luce, ma per noi quello era un sole, un disco di luce amica, perennemente al tramonto, che rischiarava le nostre giornate buie.
L’installazione non è mai più stata ripetuta, sembra che i materiali giacciano in varie scatole, nella cantina dell’artista danese-islandese, che, nel frattempo, ha creato altre situazioni, installato altre meraviglie.
Olafur Eliasson Ice Watch 2018La più recente, proprio lo scorso autunno, si intitolava Ice Watch.
Eliasson, in collaborazione con il geologo Minik Rosing, aveva estratto 30 blocchi di ghiaccio dalla Groenlandia e li aveva piazzati in vari spazi pubblici, da Copenhagen a Parigi, fino a Londra (alcuni davanti alla Tate Modern, altri di fronte al quartier generale di Bloomberg, nella City), per lasciarli sciogliere e sottolineare così la necessità urgente di agire contro i cambiamenti climatici.
Ora, le affascinanti installazioni di Olafur Eliasson sono protagoniste di una retrospettiva alla Tate Modern. Di queste opere, solo una era stata già presentata nel Regno Unito (Room for One Colour), le altre, invece, sono inedite e introducono i visitatori alla riproduzione di fenomeni naturali oppure utilizzano riflessi e ombre per alterare la percezione e la relazione con lo spazio.

In Real Life è una mostra immersiva, piena di meraviglie: piove con il sole, una candela brucia da ambo i lati, una macchina produce ombre, una parete è interamente coperta di muschio, l’arcobaleno nasce in una stanza, si può entrare in un caleidoscopio, assistere alle danze eteree di un ectoplasma.
olafur eliasson studioLa mostra inizia e termina con i progetti e le diverse attività in cui Eliasson è impegnato, dallo studio di forme naturali, alle imprese sociali e ai progetti con rifugiati, fino alle idee più innovative in architettura e le indagini concettuali su un’esperienza quotidiana come quella di preparare il cibo.
Al piano terra della Turbine Hall ci si diverte a costruire città immaginarie, fatte di lego bianco, mentre, fuori dalla Tate, una cascata d’acqua sgorga chiassosa da una struttura metallica di 11 metri (Waterfall-2019).
Quella di Eliasson è una visione teatrale ed estraniante del mondo, di cui tutti facciamo parte e condividiamo le sorti.

Piccoli miracoli da gustare, come un sole straordinario, nel buio opprimente dell’inverno.