Il bicentenario della morte di John Keats

john keatsIl 23 febbraio si celebra il duecentesimo anniversario della morte del poeta romantico John Keats.
Keats era malato di tubercolosi e aveva passato gli ultimi cinque mesi della sua vita a Roma, dove si era recato nella speranza che il sole del Mediterraneo potesse alleviare le sue condizioni.
Il poeta era nato ed era stato battezzato nella City di Londra nel 1795. Inizialmente aveva tentato di diventare medico al Guy’s Hospital, ma poi aveva abbandonato gli studi per dedicarsi alla poesia.
Keats si era trasferito allora ad Hampstead (che ai tempie era poco più di un villaggio fuori Londra) e aveva alloggiato a Wentworth Place (ora Keats House) dal dicembre 1818 al settembre 1820.
Ad Hampstead, Keats si circondò di amici e conobbe Fanny Brawne, il suo grande amore, per la quale scrisse la maggior parte dei componimenti che lo hanno reso celebre.
Essendosi ammalato di tubercolosi, il poeta lasciò l’Inghilterra per recarsi in Italia, e fu a Roma che scrisse “Bright Star”, una delle sue poesie più famose. Purtroppo, il clima non gli giovò come aveva sperato ed il giovane morì il 23 febbraio 1821 a soli 25 anni.
Gli amici Joseph Severn e Charles Armitage Brown si occuparono dell’epitaffio sulla tomba nel cimitero acattolico di Roma, presso la Piramide Cestia.
La tomba non porta esplicitamente il nome del poeta, ma è incisa con le parole dettate da Keats sul letto di morte: “Here lies one whose name was writ in water” (“Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”). Evidentemente Keats, che non era mai stato accolto favorevolmente dalla critica contemporanea, riteneva di non poter ottenere alcuna fama postuma.
Tuttavia, la sua morte così precoce e drammatica, diede vita alla leggenda romantica della malattia fatale, causata dal rifiuto e dalle critiche negative. Un altro poeta inglese, Percy Bysshe Shelley, celebrò la dipartita di Keats nell’elegia Adonaïs, scritta qualche settimana dopo il funerale, e che contribuì alla sua fama in Europa.

Virtual_KeatsGrazie agli esperti dell‘Institute for Digital Archaeology, che lo hanno “ricreato” in digitale, Keats può rivivere virtualmente. Linguisti, curatori e fisici hanno lavorato insieme per riportarlo in vita, restituendogli voce, volto… e anche i suoi vestiti!
Per la voce e la dizione ci si è rivolti a specialisti vocali, mentre, per la creazione in 3D, il team si è basato sulle maschere realizzate dopo la morte del poeta, e sui ritratti in miniatura, eseguiti mentre era in vita, tutte fonti di altissima qualità. Gli esperti si sono invece divisi sulla scelta degli abiti, perché gli aneddoti raccontano che Keats aveva adottato uno stile continentale durante il suo soggiorno romano. Hanno comunque potuto attingere alla vasta collezione di abiti del Victoria and Albert Museum di Londra.
Keats aveva pubblicato dozzine di poesie nel corso della sua breve esistenza, ma sarà “Bright Star” ad essere recitata dal poeta virtuale, proprio nell’anniversario della sua morte, e nella stessa stanza dove spirò, nella casa al n. 26 di piazza di Spagna, che ora è un museo.
Ed è la Keats-Shelley House a Roma a promuovere una serie di iniziative digitali, per commemorare la morte del poeta.
Oltre all’attesa apparizione del John Keats generato al computer, che reciterà il suo poema alle 18 italiane (le 17 in UK), nella stessa giornata si segnalano anche l’anteprima online di “The Death of Keats”, una video storia immersiva narrata da Bob Geldof (disponibile sul canale YouTube della casa museo) e un tour panoramico con guida dal vivo, che sarà disponibile a partire dal 23 febbraio.
Anche il Keats House Museum ad Hampstead celebra la vita, le opere e l’eredità di Keats, grazie ad una serie di eventi online, tra cui una mostra virtuale.
Si può anche seguire il bicentenario sui social, mediante l’hashtag #Keats200.

Il cibo e l’arte e il nuovo decennio…

Finisce un anno e ne comincia un altro e io mi sento come Giano bifronte, che guarda in due direzioni, molto diverse, e si sente ancora immerso nel decennio appena concluso, mentre una faccia è già orientata al futuro.
Del resto, la pausa natalizio-mangereccia non del tutto passata, ha radici molto antiche, precristiane. Dai Saturnalia ai riti propiziatori delle culture agricole del mondo antico.
Il tempo per quegli uomini aveva un andamento ciclico, di morte e rinascita, e seguiva il percorso del sole, le stagioni e le fasi lunari. Questa fine-inizio, con le sue implicazioni profonde, arriva fino a noi, menti moderne, a creare un po’ di ansia e aspettativa.
Allora, io vi propongo un doppio appuntamento con il passato, tra Italia e UK, per esplorare il rapporto dell’uomo con il cibo, le abitudini sociali e la ritualità.
A Roma, la mostra Pompei e Santorini – L’eternità in un giorno (fino al 6 gennaio), presenta oltre trecento oggetti, e ripercorre un arco di tempo che va dall’età del bronzo ai nostri giorni, attraverso il Mediterraneo.
A Oxford, Last Supper in Pompeii (fino al 12 gennaio) mostra un analogo numero di reperti, tra cui utensili da cucina, mosaici e resti di cibo, ed esamina il rapporto degli antichi romani (da Pompei a Londinium) con il cibo e l’agricoltura
Comune denominatore delle narrazioni è la catastrofe, che, tacita, incombe e muta il corso delle società umane.
scheletro carpe diemGli antichi Romani non avevano timore di evocare la morte, che, anzi, era un modo per ricordarsi di godere del momento e dei suoi piaceri terreni.
La filosofia epicurea del carpe diem ha sicuramente ispirato i padroni della Casa delle Vestali ad adornare il pavimento della sala da pranzo con uno scheletro coppiere (in prestito ad Oxford dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e farne così uno strano, quanto umoristico, fulcro dei loro banchetti, le cui tavole erano allietate da pietanze e bevande servite in magnifici servizi d’argento.
Pompei era rinomata per la sua produzione di argenteria.
Tazze d’argento dorate, decorate con la tecnica del repoussé, abbellite da rilievi di piante sacre (olivo, vite e mirto) sono in mostra all’Ashmolean Museum. Alle Scuderie del Quirinale, invece, si può ammirare il magnifico servizio da tavola rinvenuto a Moregine, che include sia l’argento da portata (escarium) che quello per i liquidi (potorium).
Mangiare, bere e produrre cibo erano attività consuete anche ad Akrotiri, nell’isola di Santorini.
L’antica città fu distrutta da un’eruzione vulcanica nel secondo millennio a.C., ma è probabile che la popolazione sia riuscita a mettersi in salvo e portare con sé gioielli e oggetti preziosi.
Restano, tuttavia, tazze e vasellame di terracotta di estrema vivacità e bellezza, decorate con motivi geometrici a spirale o elementi naturalistici ispirati all’ambiente dell’isola, come delfini, uccelli, bovini, fiori di croco, racemi, conchiglie.
vaso croco da akrotiriLa natura, incontaminata o modellata dall’uomo, era un elemento importante.
Si stima che un terzo delle case pompeiane disponesse di un giardino privato.
Lo spazio poteva avere funzione utilitaria, ad esempio per coltivare ortaggi o erbe medicinali, ma serviva anche come estensione della casa, per mangiare, socializzare o purificarsi.
I cittadini più ricchi potevano installare fontane ornamentali, decorate con mosaici e statue.
A Oxford si può ammirare un pescatore di bronzo, proveniente dalla Casa della Piccola Fontana; a Roma, il bel ninfeo della Casa del Bracciale d’Oro, rivestito da mosaici policromi in pasta vitrea, conchiglie e schiuma di lava.
La Casa del Bracciale d’Oro era una delle abitazioni più lussuose di Pompei. Qui, i banchetti estivi avvenivano in un triclinio aperto sul giardino, di cui il ninfeo costituiva il fulcro.
affresco giardino pompeiQuesta sala di rappresentanza era abbellita con le più accurate scene di giardino di III stile (anch’esse esposte a Roma), così realistiche da consentire il riconoscimento di diverse specie di piante e uccelli dell’epoca.
Dimore affrescate esistevano anche nell’antica Akrotiri, da cui provengono meravigliose e suggestive immagini.
La Casa Occidentale era decorata con storie di viaggi per mare, giovani pescatori e bellissime sacerdotesse occupate in rituali misteriosi.
Tra l’Egeo e il Tirreno predominava infine quella dieta mediterranea consumata ancora oggi, fatta in maggioranza di olive, noci, grano e legumi, frutta, pesce e molluschi. Ce la testimoniano resti di conchiglie, olio solidificato nel suo vaso di vetro, pani e fichi carbonizzati, anfore per il garum e per i datteri, modelli di dolci e melograni.
Sia la mostra di Oxford che quella di Roma guardano oltre l’orrore dell’improvvisa distruzione, per celebrare l’esistenza degli abitanti di Akrotiri e Pompei.
Il banchetto, per gli antichi come per noi, è l’epitome della vita (degli amici, della famiglia, dei contatti di lavoro).
Una festa che ci conduce, ebbri e sazi, alla fine e all’inizio di tutte le cose, all’avvio di una nuova gestazione.

“Elle est retrovèe/Quoi? L’eternité”

Una nuova partnership di scambio botanico tra Londra e Roma

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I giardinieri del South London Botanical Institute (SLBI) di Tulse Hill in questi giorni stanno visitando l’Orto Botanico di Roma grazie ad una nuova partnership di scambio botanico tra le due organizzazioni. La partnership è finanziata da Botanic Gardens Conservation International (BGCI) in collaborazione con la Interactive Community di Arboreta (ArbNet), nell’ambito di un nuovo schema per condividere conoscenze, abilità e risorse all’interno della comunità internazionale di orti botanici. L’obiettivo finale è quello di migliorare la conservazione delle piante in tutto il mondo.

La borsa di partenariato sosterrà una visita di scambio in ciascun giardino. I giardinieri dell’Orto Botanico di Roma visiteranno il South London Botanical Institute a giugno.

L’Orto Botanico di Roma (BGR) è una struttura didattica e scientifica dell’Università Sapienza di Roma, e occupa un’area di 11 ettari nel centro storico di Roma. Si trova nell’ex giardino del palazzo cinquecentesco della famiglia Corsini, una famiglia aristocratica fiorentina. Il palazzo, ora sede dell ‘”Accademia Nazionale dei Lincei”, e il suo giardino furono trasferiti allo stato italiano alla fine del XIX secolo. La posizione e l’origine del giardino botanico ne fanno un luogo unico, in quanto è un esempio di giardino storico con un importante patrimonio artistico. Oggi conta circa 2000 specie, tra cui il palmeto (con 24 specie), il boschetto di bambù (con oltre 76 specie), il roseto, il “Giardino dei Semplici” (contenente specie vegetali coltivate ad uso medicinale), il Giardino giapponese e la serra Corsini, con piante succulente.

Il South London Botanical Institute (SLBI) fu fondato nel 1910 dal riformatore sociale Allan Octavian Hume, con lo scopo di diffondere la botanica tra i lavoratori della zona sud di Londra. Hume fu al servizio del Raj britannico, membro fondatore del Congresso nazionale indiano nel 1885, e comprò la casa vittoriana, sede dell’Istituto, nel 1860, trasformandola ad hoc, con una biblioteca, un erbario ed un vasto giardino. Gli armadi dell’erbario progettati da Hume sono ancora in uso e contengono esemplari di piante risalenti al 1802. Il giardino si è evoluto e ora ha uno stagno fiorente, particolarmente popolare tra i bambini in visita.

L’obiettivo di Hume prosegue ancora oggi: lo SLBI apre le porte a persone provenienti da varie parti della città, permettendo loro di esplorare il mondo vegetale, godere del giardino botanico, della biblioteca e dell’erbario e partecipare a una vasta gamma di attività per tutte le età ed abilità.

I giardinieri romani sono particolarmente interessati a conoscere gli eventi educativi organizzati dallo SLBI: visite scolastiche, laboratori botanici, conferenze e altre attività, che si rivolgono alla comunità più ampia di Londra – questo è quello che vorrebbero incentivare a Roma.

Entrambe le organizzazioni non vedono l’ora di imparare dai rispettivi giardini, ad esempio quali nuove piante potrebbero essere aggiunte alle loro collezioni. Roma vuole conoscere meglio le piante acquatiche, i cactus, le piante grasse e le piante carnivore coltivate allo SLBI, mentre lo SLBI è particolarmente interessato alle piante mediterranee. Entrambi i giardini condivideranno la conoscenza delle loro collezioni di felci, oltre a discutere sulle modalità di seed banking, sui database e sulla gestione delle raccolte di piante (inclusi gli erbari con piante essiccate).

Commentando la partnership, Sarah Davey, Capo Giardiniere di SLBI, ha dichiarato: “Siamo lieti di avere la meravigliosa opportunità di visitare il prestigioso Orto Botanico di Roma e di imparare dalle loro collezioni botaniche. Non vediamo l’ora di accogliere i giardinieri italiani allo SLBI anche a giugno, per mostrare loro il nostro giardino e la nostra vasta gamma di attività “.

Il South London Botanical Institute è aperto per eventi e attività, ed in generale, il giovedì dalle 10.00 alle 16.00. Per maggiori dettagli si può inviare una email a info@slbi.org.uk.

 

Al di là delle apparenze: Caravaggio e seguaci in mostra a Londra

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Caravaggio: Cattura di Cristo, 1602. The National Gallery of Ireland, Dublin.

Se, nelle prossime settimane, andrete alla National Gallery solo per Caravaggio, resterete delusi. Non bisogna infatti farsi trarre in inganno da una frettolosa occhiata al titolo della mostra di quest’autunno: ‘Beyond Caravaggio’. L’esposizione londinese, tramite opere della collezione, unite a prestiti tutti da musei britannici, con qualche tela proveniente dagli Stati Uniti,  vuole mettere in luce l’eredità caravaggesca e l’effetto che i quadri del maestro ebbero su contemporanei e seguaci.
Le tele di Caravaggio qui sono poche, ma significative, e, come astri brillanti, aiutano a navigare attraverso l’esposizione, indicando i punti salienti del nuovo stile: il chiaroscuro altamente drammatico, l’alternanza del rosso e del nero, il realismo dei soggetti, spesso ritratti dal vero, il taglio della composizione, gli agganci sensuali (nature morte, stoffe, monili…), con cui attrarre lo sguardo dello spettatore fino al centro della storia.
L’arte di Caravaggio suscitò un’impressione immediata. Ne scorgiamo il riverbero sul circolo di pittori e amici che gli gravitavano intorno e che popolavano e dipingevano negli nella Roma del primo Seicento: Francesco ‘Cecco’ Boneri, Giovanni Antonio Galli detto ‘lo Spadarino’, ed Orazio Gentileschi. La figlia di quest’ultimo, Artemisia, durante il processo per stupro intentato ad un altro pittore della cerchia romana, il paesaggista Agostino Tassi, ricorderà la consuetudine con cui il padre e Caravaggio si frequentavano, prestandosi spesso strumenti di bottega. Artemisia Gentileschi berrà il caravaggismo dal calice dell’insegnamento paterno, ma le sue storie saranno più realiste ed impetuose.
Una Roma di contraddizioni trasuda dalle pennellate di questi artisti: una città opulenta, ricca di commissioni importanti, ma anche un tessuto urbano popolato da straccioni, mendicanti, pellegrini dai piedi sporchi, e uomini violenti, dediti al gioco d’azzardo, alle ruberie, al coltello facile, ai bagordi in osteria.

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Giovanni Antonio Galli, detto ‘lo Spadarino’: Cristo mostra le sue ferite, 1625-35. Perth Museum & Art Gallery

E’ in questo mondo di contrasti che si muove Caravaggio, figlio di un’epoca che offre paradisi sensuali ed inferni senza redenzione. Si attraversano le sale della mostra come se si percorressero quei vicoli, dove i musici rallegravano gli avventori di taverne spoglie, punteggiate di tavolacci apparecchiati da forme di pane e coltelli affilati, bicchieri di vino e sudicie carte da gioco. Le vanitas sono fatte di lucernari che illuminano frutti ammaccati, formaggi, strumenti musicali e fiasche svuotate.
Il Paradiso è meno lontano, per quest’umanità dei bassifondi, se Cristo è un giovane popolano, che dischiude il costato, in un bagno di luce bianca, terrena e divina insieme. Il male è triviale, e passa per il bacio accennato di un Giuda gradasso, le lumeggiature fredde di un cimiero, lo sguardo del pittore che si autoritrae, testimone dell’ennesima infamia.
Poi Caravaggio muore, solo, braccato, tormentato e febbricitante, sulle rive di un villaggio di pescatori, e si moltiplicano le imitazioni della sua arte, fino a valicare i confini dell’Italia.

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Georges de La Tour: Il Baro dell’Asso di fiori (dettaglio), 1630-34. Kimbell Art Museum, Forth Worth, Texas

Al nord, i dipinti di francesi e fiamminghi sono meno drammatici, meno sanguigni, più meditativi. Le candele rischiarano le fredde notti, in cui dame e cavalieri barano al gioco, letterati tengono lezioni di filosofia, vecchie serve rugose si fanno strada nell’oscurità. L’esempio del maestro viene assimilato e reinterpretato in chiave meno ispirata, tramutandosi in affascinante esercizio di stile.
La vena si prosciugherà presto, cedendo il passo a nuove scuole e nuovi modelli.
Una mostra da vedere, senza preconcetti e senza aspettative, lasciandosi catturare dai contrasti, immaginandosi viandanti nelle ombre e visioni effimere di un Seicento verace ed emozionale.

Al British Museum, gli acquerelli italiani di Francis Towne

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Francis Towne, “The Roman Forum” (1780), Nn,3.15. Credit: The Trustees of The British Museum

‘Grazie per il tuo voto alle elezioni degli associati e per l’amicizia che mi hai dimostrato, ma tu mi chiami un maestro di disegno di provincia! … Non ho mai avuto intenzione di vivere la mia vita, se non professandomi un Pittore di Paesaggio.’
Con queste parole, nel 1803, l’artista inglese Francis Towne si rivolgeva al suo amico Ozias Humphry, dopo aver invano richiesto, alla Royal Academy, di aprirgli le porte come membro associato. Nel 1805, il pittore, ormai sessantaseienne, decideva di allestire una personale in una galleria londinese, nei pressi di Grosvenor Square. Tra le varie opere, figuravano quelle che Towne stesso considerata fondamentali nella sua carriera di paesaggista: gli acquerelli dipinti durante il Grand Tour del 1780-81. Alla sua morte, nel 1816, tutti i disegni e gli acquerelli furono donati, per sua espressa volontà, al British Museum. Ma gli evocativi paesaggi italiani, gli scorci di Roma e della campagna laziale, i panorami inglesi, caddero presto nel dimenticatoio. Dopo l’eccitante espressività di Turner, ai critici vittoriani piacevano di più quegli acquerelli di paesaggio che fossero colorati e drammatici. I vedutisti e ‘topografi’ del XVIII secolo, apparivano loro monotoni e spenti. Fu solo grazie allo studioso Paul Oppé, e ad un suo articolo su Francis Towne, apparso nel 1920, che l’artista, con il suo uso magistrale di tinte profonde, dal bruno, al viola, al marrone brillante, fu improvvisamente riscoperto e rivalutato. Ora, nel bicentenario della morte, una bella mostra gratuita, al British Museum, celebra l’abilità e sensibilità di questo artista, esponendo la serie completa dei suoi acquerelli italiani, che riassumono, con eleganza, il gusto e l’interesse per i viaggi di istruzione. Formatosi a Londra, Towne, nel 1763 si trasferisce ad Exeter, dove si guadagna da vivere insegnando disegno a ricchi e nobili dilettanti. Dopo un breve viaggio in Galles, nel 1777, si specializza in acquerello e, nel 1780, intraprende il Grand Tour, con destinazione Roma. Il soggiorno si rivela altamente produttivo. Towne passa anche un mese a Napoli, nel 1781, assieme al pittore Thomas Jones. Nonostante una febbrile attività, che lo vede lavorare al fianco di altri artisti viaggiatori, come John ‘Warwick’ Smith, e il suo vecchio amico di Londra, William Pars, per Francis Towne il percorso sembra più importante della destinazione. Si sofferma a ritrarre la campagna romana, registrando abilmente rami e fronde, boschi e radici aggrovigliate, fino agli alti pini di Roma, che si stagliano dietro muri screpolati. E poi, naturalmente, c’è Roma, una città sospesa nel tempo, sconosciuta al turismo di massa, con le rovine imponenti del Colosseo, del Foro o delle Terme di Caracalla, testimoni mute e quasi deserte, del disfacimento di un grande Impero, popolate solo da erbacce, un carretto, una tenda, o qualche sparuta figura, profilate contro un cielo quasi piatto. Il viaggio di istruzione è un impegno creativo. A Roma Towne tenne un diario meticoloso, oggi perduto, che trova un’eco nelle iscrizioni, spesso prolisse, aggiunte sul retro dei suoi disegni. A differenza di altri artisti, Towne, pur scoprendo idee compositive, acquistando una monumentalità alla Piranesi, e scambiando esperienze con altri pittori, mal sopporta il soggiorno italiano e decide di tornare in Inghilterra. Qui cercherà di incorporare l’esperienza romana, nella realizzazione dei paesaggi successivi, anche se le committenze, via via, andranno scemando, e, per il resto della sua vita, dovrà inseguire invano il riconoscimento della Royal Academy, e sempre lottare per rivendicare il suo status di artista serio. Nati come studi ed esercizi, gli schizzi italiani sono oggi il suo testamento.

 

Mary Beard incontra i Romani

mary beard meets the romansDegli antichi Romani, anche se non si è fatto il liceo classico, sappiamo ormai parecchio. Ci hanno trasmesso l’arco, gli acquedotti, la cultura ellenistica, una rete viaria che utilizziamo ancora adesso, un codice legislativo mica male, e, gran parte della lingua in cui vi sto scrivendo, discende direttamente dal latino.
I Romani abitavano in domus lussuose o insulae sovraffollate, l’economia era basata sul lavoro schiavile e le conquiste militari, il tempo libero si svolgeva tra terme, teatro, spettacoli circensi e laute cene. L’immaginario collettivo, tra vestigia cittadine e scavi pompeiani, si è poi nutrito di innumerevoli versioni cinematografiche,  in cui l’eroe o l’antieroe di turno, togato e laureato, nell’arena o in lettiga, prendeva via via le fattezze di Marlon Brando, Charlton Heston, Peter Ustinov, Russel Crowe, Totò e Alberto Sordi.  Tuttavia, sebbene siamo ormai ferrati su grandi nomi di politici, imperatori, nobili e generali dell’Impero, quando pensiamo agli antichi romani ordinari, gente che viveva nelle città, svolgendo i lavori più disparati, soffrendo, ridendo, amando e pagando tributi, proprio come noi, allora la faccenda si fa più nebulosa.
Eppure, se solo si sa dove guardare, le voci lontane di questi antenati si fanno vivide e sonore; ci raccontano piccole storie quotidiane e ci danno la misura di questioni più ampie, gettando luce su una società cosmopolita (non come la intendiamo noi oggi) fatta sì di fasti e lussi, ma anche di ombre e povertà.

Proprio ieri sera, è andata in onda l’ultima puntata di una miniserie della BBC 2, dal titolo “Meet the Romans”. In essa, lo spettatore viene affidato alla guida di Mary Beard, classicista dell’Università di Cambridge, che lo porterà in giro per strade, tombe, fori, musei e depositi di Roma ed altre città, svelando curiosità e segreti degli antichi romani, tra un’epigrafe latina, una tibia consumata, un busto dal naso sbeccato. Niente di noioso ed accademico, come si potrebbe pensare. Mary Beard è una donna pratica, la cui vasta conoscenza ci viene trasmessa con entusiasmo e per mezzo di una comunicativa spumeggiante, scevra da pomposi gerghi e affettazioni.
La Beard è una simpatica eccentrica, che gira in bicicletta per le caotiche strade della Roma odierna o per solitari tratti dell’Appia Antica, discutendo di storia e archeologia con eminenti luminari, davanti ad un cappuccino fumante, al tavolino di un caffè affollato; la seguiamo di buon mattino, mentre va a vedere come si fa il pane in un laboratorio, mettendo le mani in pasta come duemila anni fa; oppure nel dipartimento di antichità romane del British Museum, mentre fa cenno di provarsi l’elmo di un gladiatore. Mary passeggia con gli esperti di turno per le vie di Ostia antica e si aggira tra le pareti di case pompeiane, proprio come faremmo noi in una gita domenicale. Quando occorre, la fida spazzolina ripulisce i marmi dalla polvere, le dita scorrono sicure lungo tituli e tabulae, epitaffi e graffiti. Dal latino oscuro, fuoriescono storie di panettieri parvenu, scolari modello, schiavi affrancati, pettinatrici imperiali, vittime di omicidio, ménages a trois, mercanti di pepe. Coi suoi capelli lunghi e grigi, un po’ da hippie, e le smorfie che tradiscono partecipazione ed entusiasmo, per quello che mano mano ci va svelando, l’illustre studiosa penetra attraverso cancellate solitamente chiuse da pesanti lucchetti, si fa aprire vetrine sigillate, casse di depositi dove dormono piccoli e grandi tesori, come la barbie di Crepereia Tryphaena. Il fatto che una docente universitaria, quasi sessantenne, sappia raccontare fatti storici ed aneddoti con professionalità e vivace ironia, senza tradire alcun cenno di parrucchiere, manicure, trucco o botulino, non è piaciuto ad alcuni noti detrattori. Il critico televisivo A.A. Gill, invece di soffermarsi a recensire il documentario della BBC, ha preferito lanciare invettive contro l’aspetto fisico della Beard, asserendo che è troppo brutta per la TV. Stesso tono per le critiche della bionda Samantha Brick, giornalista del Daily Mail, in un articolo pubblicato stamattina. Al solito, sembra che, per una donna, in Gran Bretagna come in Italia, il requisito essenziale per apparire in video, sia sopra a tutto la bellezza, piuttosto che l’intelligenza. Il pubblico inglese ha largamente gradito il programma e continua a supportare Mary Beard, la quale non si è fatta peraltro sconfiggere dalle critiche al vetriolo. La studiosa,  rispondendo agli attacchi dalle pagine del Telegraph e dello stesso Daily Mail, ha sottolineato con ironia i suoi difetti fisici, dovuti ad anni di studio, un certo patrimonio genetico da cui non è riuscita a sfuggire e i segni di 57 primavere posatesi sulle sue spalle. Avendo, a suo tempo, dovuto lottare contro un mondo accademico, che non privilegiava in alcun modo l’ascesa delle donne, la Beard si è poi definita “too brainy for men who fear clever women”.

Merry Xmas

Natale,  questa volta, senza nebbie albioniche guastafeste che mi lasciano a terra, lo passo in Italia. Con la benedizione televisiva urbi er orbi, la musica classica, gli sms sorpresa dalla terra angla, la tovaglia bella e i bicchieri di cristallo, che suonano carini se li intruppi con le posate, e il centrotavola con la candela rossa e l’albero addobbato dalla sottoscritta, con le decorazioni vittoriane, tolte dall’imballo lottando contro l’allergia da polvere dell’anno precedente. Natale lo respiro nella mia città, a fare le foto da turista alla vigilia e ad immortalare vetrine da favola di Andersen, con le mortadelle appese a 25 euro al chilo e i nanetti di cioccolato tra i rami di pino e il gatto con gli stivali tra scampoli di damasco e la gente che c’è la crisi, ma fa lo stesso la fila fuori da Vuitton, a via Condotti. Natale a Roma è rivedere il sole, quello che scalda e ti fa togliere gentilmente il berretto e la sciarpa e poi piegare la giacca sul braccio, mentre la gente va e viene coi pacchetti e le buste. E’ la rimpatriata con gli amici, quelli di sempre e quelli recuperati col passaparola e faccialibro, è girovagare in libreria con l’amica che ti dice quali sono i best sellers dell’anno e tu che fai lettura veloce tra  uno scaffale e l’altro e pensi che quel titolo là lo puoi prendere in prestito dall’istituto francese di south kensington, invece di bruciarti 18 neuri, che c’è il christmas crunch. Natale è la telefonata con gli zii, il vino che è buono e ti stende, Adeste Fideles, il torrone di Benevento, le puntarelle e le noci, rumori di sedie trascinate attorno ad un tavolo, il divano per schiacciare un pisolino, odore di mandarini e cera calda e si è tutti più buoni. Natale è a casa. E allora, Buon Natale!