Dante a colori

Si avvicina il Dantedì, la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, istituita il 25 marzo 2020. Quest’anno, si celebrano anche i 700 anni della morte del Sommo Poeta, avvenuta il 14 settembre 1321.
Ci sono due Danti che mi hanno colpito visivamente quando ero ragazzina.
Uno, tra i più famosi, è quello immaginato da Gustave Doré.
Mio nonno possedeva un voluminoso tomo della Divina Commedia, corredato da incisioni, che la Sonzogno di Milano aveva messo in commercio, sia in versione lusso, sia in, diciamo, economica, con copertina in cartonato e simil pelle, a partire dalla fine dell’Ottocento.
A questo Dante in bianco e nero, se ne aggiunse presto un altro, raffigurato su una cartolina che il vicino ci inviò da Firenze.
Questo Dante era a colori, se ne stava pensoso all’angolo tra il Ponte Santa Trinita e il Lung’Arno, mentre Beatrice gli sfilava davanti, formosa e paludata, circondata da dame di compagnia. Sullo sfondo, il Ponte Vecchio.
Anni dopo, ho scoperto che questa immagine era in realtà un quadro, “Dante and Beatrice”, realizzato dal pittore londinese Henry Holiday.
Il dipinto fu esposto alla Grosvenor Gallery nel 1883 e oggi è custodito alla Walker Art Gallery in Liverpool.
Holiday, che aveva per amici i preraffaelliti, ha raccontato egli stesso la genesi di questo dipinto, per la realizzazione del quale, si era recato a Firenze, nel 1881, ed aveva studiato gli sfondi della scena per filo e per segno.
“Ero rimasto colpito dal fascino del racconto di Dante, del suo dolore quando Beatrice in alcune occasioni gli negò il saluto…”
Holiday aveva scoperto che il Ponte Vecchio, l’elemento centrale del suo dipinto, era stato distrutto da un’alluvione, ed era stato ricostruito poco prima dell’epoca di Dante. Sempre nello stesso periodo, le strade di Firenze erano state pavimentate in mattoni.
Holiday aveva perciò studiato una vecchia pavimentazione a Siena, con i mattoni disposti a spina di pesce.  Studiando gli edifici e i dettagli ancora esistenti, la Firenze di Dante diventava realtà.
Per le dame rappresentate nella scena, il pittore aveva chiesto di posare a Miss Eleanor Butcher (Beatrice), Miss Milly Hughes, (Monna Vanna, in rosso) e Miss Kitty Lushington, figlia di un noto giudice (la donna in blu).
Per Dante, Holiday si era ispirato alle sembianze di suo amico italiano, anche lui artista.
I piccioni del quadro, invece, furono dipinti da John Trivett Nettleship, un celebre pittore inglese, specializzato in animali, soprattutto leoni, e anche lui in rapporti amichevoli con i preraffaelliti.

 

Il bicentenario della morte di John Keats

john keatsIl 23 febbraio si celebra il duecentesimo anniversario della morte del poeta romantico John Keats.
Keats era malato di tubercolosi e aveva passato gli ultimi cinque mesi della sua vita a Roma, dove si era recato nella speranza che il sole del Mediterraneo potesse alleviare le sue condizioni.
Il poeta era nato ed era stato battezzato nella City di Londra nel 1795. Inizialmente aveva tentato di diventare medico al Guy’s Hospital, ma poi aveva abbandonato gli studi per dedicarsi alla poesia.
Keats si era trasferito allora ad Hampstead (che ai tempie era poco più di un villaggio fuori Londra) e aveva alloggiato a Wentworth Place (ora Keats House) dal dicembre 1818 al settembre 1820.
Ad Hampstead, Keats si circondò di amici e conobbe Fanny Brawne, il suo grande amore, per la quale scrisse la maggior parte dei componimenti che lo hanno reso celebre.
Essendosi ammalato di tubercolosi, il poeta lasciò l’Inghilterra per recarsi in Italia, e fu a Roma che scrisse “Bright Star”, una delle sue poesie più famose. Purtroppo, il clima non gli giovò come aveva sperato ed il giovane morì il 23 febbraio 1821 a soli 25 anni.
Gli amici Joseph Severn e Charles Armitage Brown si occuparono dell’epitaffio sulla tomba nel cimitero acattolico di Roma, presso la Piramide Cestia.
La tomba non porta esplicitamente il nome del poeta, ma è incisa con le parole dettate da Keats sul letto di morte: “Here lies one whose name was writ in water” (“Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”). Evidentemente Keats, che non era mai stato accolto favorevolmente dalla critica contemporanea, riteneva di non poter ottenere alcuna fama postuma.
Tuttavia, la sua morte così precoce e drammatica, diede vita alla leggenda romantica della malattia fatale, causata dal rifiuto e dalle critiche negative. Un altro poeta inglese, Percy Bysshe Shelley, celebrò la dipartita di Keats nell’elegia Adonaïs, scritta qualche settimana dopo il funerale, e che contribuì alla sua fama in Europa.

Virtual_KeatsGrazie agli esperti dell‘Institute for Digital Archaeology, che lo hanno “ricreato” in digitale, Keats può rivivere virtualmente. Linguisti, curatori e fisici hanno lavorato insieme per riportarlo in vita, restituendogli voce, volto… e anche i suoi vestiti!
Per la voce e la dizione ci si è rivolti a specialisti vocali, mentre, per la creazione in 3D, il team si è basato sulle maschere realizzate dopo la morte del poeta, e sui ritratti in miniatura, eseguiti mentre era in vita, tutte fonti di altissima qualità. Gli esperti si sono invece divisi sulla scelta degli abiti, perché gli aneddoti raccontano che Keats aveva adottato uno stile continentale durante il suo soggiorno romano. Hanno comunque potuto attingere alla vasta collezione di abiti del Victoria and Albert Museum di Londra.
Keats aveva pubblicato dozzine di poesie nel corso della sua breve esistenza, ma sarà “Bright Star” ad essere recitata dal poeta virtuale, proprio nell’anniversario della sua morte, e nella stessa stanza dove spirò, nella casa al n. 26 di piazza di Spagna, che ora è un museo.
Ed è la Keats-Shelley House a Roma a promuovere una serie di iniziative digitali, per commemorare la morte del poeta.
Oltre all’attesa apparizione del John Keats generato al computer, che reciterà il suo poema alle 18 italiane (le 17 in UK), nella stessa giornata si segnalano anche l’anteprima online di “The Death of Keats”, una video storia immersiva narrata da Bob Geldof (disponibile sul canale YouTube della casa museo) e un tour panoramico con guida dal vivo, che sarà disponibile a partire dal 23 febbraio.
Anche il Keats House Museum ad Hampstead celebra la vita, le opere e l’eredità di Keats, grazie ad una serie di eventi online, tra cui una mostra virtuale.
Si può anche seguire il bicentenario sui social, mediante l’hashtag #Keats200.

L’Arte appaga, ma non paga

NHM

E’ un anno nero per i musei, le pinacoteche, le dimore storiche, i cinema, i teatri e le sale concerto londinesi. Dopo aver riaperto i battenti ad estate inoltrata, sono rimasti di nuovo fermi nel secondo lockdown di novembre. Hanno potuto riaprire agli inizi di dicembre ma, dopo neanche due settimane, hanno chiuso di nuovo, a causa del Tier 3, il livello più alto di restrizioni Covid.
Pensavo che questo livello corrispondesse pedissequamente alla zona rossa italiana, tuttavia, mi è bastato fare un giro, per notare che tutti i negozi, anche quelli non classificati come di prima necessità, sono aperti, così come restano aperti barbieri, parrucchieri, saloni da estetista, saune, palestre. Nonché caffè, pub e ristoranti, quelli in grado di fornire un servizio di asporto.
Non ho mai visto tanta gente in giro, e, tra l’altro, le mascherine restano un optional, persino là dove dovrebbero essere obbligatorie, perché nessuno davvero controlla e il poster alla Julian Opie che minaccia multe salatissime, è un blando deterrente.
Insomma, qui in UK come in altri paesi d’Europa, è considerato sicuro affollare un centro commerciale, ma pericoloso andare a vedere una mostra o assistere ad uno spettacolo.
Eppure, Public Health England non ha registrato alcun caso di coronavirus che sia stato trasmesso in un’attrazione turistica nel Regno Unito.
Musei e altri luoghi di cultura hanno messo in pratica un rigido sistema di prenotazione anticipata, con distanze fisiche garantite da biglietti a orario e da numero ridotto di utenti, obbligati ad indossare la mascherina e a seguire un percorso sanificato e ben stabilito.
Dopo essersi a malapena rimesse in piedi dal primo lockdown, piene di speranza di poter recuperare qualcosa in seguito al secondo, adesso molte realtà culturali si trovano in una situazione finanziaria molto difficile se non drammatica. Potrebbe dunque essere difficile, per alcune organizzazioni, riuscire a restare a galla nel 2021…

 

Una visita differente. A Londra riapre la National Gallery.

National Gallery

© Roberto.Trombetta on Visual Hunt / CC BY-NC

Tra le tante cose che l’emergenza coronavirus ha cambiato nelle nostre vite si può annoverare la casualità e, se vogliamo, un po’ di spontaneità.
Il distanziamento sociale significa pianificare, prenotare, mettersi in fila.
Non si può più, almeno fino a quando la situazione non tornerà normale, passare davanti all’ingresso di un luogo di intrattenimento, di un museo o di una galleria, e decidere di entrare, seguendo l’ispirazione del momento.
Tuttavia, l’arte è una terapia, che aiuta a migliorare l’umore e arricchire la nostra vita.
Ecco perché non possiamo non accogliere con piacere la notizia che la National Gallery ha riaperto finalmente ai visitatori, dopo 111 giorni di lockdown.
E’ stato il periodo più lungo di chiusura per questa famosa pinacoteca, che era riuscita a mantenersi fruibile, anche durante due conflitti mondiali.
L’ingresso è sempre gratuito, ma stavolta bisogna prenotare in anticipo un biglietto orario.
La mascherina per i visitatori non è obbligatoria (come avviene nei musei italiani), ma consigliata.
Il distanziamento sociale è in atto fin da Trafalgar Square.
All’interno, si dovranno seguire tre possibili percorsi tematici obbligatori: Arte Italiana, Arte Nord-Europea, Arte Britannica.
Nelle sale sarà possibile sostare a piacere, sempre seguendo le frecce, le regole e le distanze.
Il personale potrà decidere di far fluire i visitatori altrove, se i numeri in ciascun ambiente diventeranno eccessivi.
Per le guide turistiche con patentino, i detentori di carte ICOM e Museum Association e chi lavora o svolge volontariato nei musei, le mostre speciali non saranno più gratuite o scontate, almeno fino ad ottobre 2020.
Questo è stato deciso dal National Museum Directors’ Council, data la scarsa disponibilità di biglietti a pagamento e il danno finanziario subito dalle istituzioni museali.
Pur comprendendo le suddette ragioni, ICOM ritiene che la scelta sia in qualche modo reazionaria e non tenga conto dei più ampi vantaggi dell’accesso gratuito e reciproco, ad esempio la costruzione e lo scambio di conoscenze professionali e la promozione di un accesso più ampio e diversificato (oltre al fatto che, abbonarsi a questi schemi, ha comunque un costo annuale significativo: 89 sterline per ICOM e 94 sterline per MA).

Il Florence Nightingale Museum di Londra è in pericolo

Florence Nightingale 200

Florence Nightingale 200 © London SE1 Community Website

Questa settimana, sui social media, si celebra MuseumWeek, un festival mondiale dedicato alle istituzioni culturali.Ogni giorno, un tema diverso.
Il primo, lunedì, è stato #heroesMW,  per celebrare tutti quei lavoratori che affrontano la crisi del coronavirus (come, ad esempio, addetti alla sicurezza, curatori, ricercatori e restauratori).
Ma ieri si celebrava anche il bicentenario della nascita di Florence Nightingale e la Giornata Internazionale degli Infermieri.
A Florence Nightingale, riformatrice sociale che trasformò le cure mediche sul campo di battaglia durante la guerra di Crimea, promuovendo igiene e reparti dal design innovativo (per prevenire le infezioni e gestire meglio gli ammalati), non è stato dedicato solo un ospedale, creato ad hoc per l’emergenza Covid-19, ma anche un museo, che ora sta lottando per sopravvivere, poiché, dopo la chiusura per il lockdown, ha visto scomparire il 98% dei suoi finanziamenti.
Il Florence Nightingale Museum, che, dal 1989, racconta la storia di Florence e della professione infermieristica. ha sede nei pressi del St Thomas’ Hospital, lo stesso ospedale dove fu istituita la prima scuola di formazione secolare per infermieri. 
Tra i cimeli conservati nel museo, si trova la famosa lanterna, con cui, di notte, nell’ospedale di Skutari, Florence faceva visita ai soldati feriti (e che le aveva valso il soprannome di “The Lady with the Lamp”); inoltre, l’edizione originale del libro scritto da lei nel 1860, dal titolo: “Notes on Nursing.” Cenni sull’assistenza degli ammalati.
Un libro più che mai attuale, se pensiamo al moderno mantra che ci spinge a lavarci le mani spesso e volentieri, per combattere la pandemia. Un avviso che Florence aveva ribadito con insistenza: “ogni infermiera dovrebbe lavarsi le mani molto frequentemente durante il giorno… ”
Florence era all’avanguardia, perché usava dati statistici e anche grafici, per supportare le sue teorie sull’assistenza e sui servizi igienico-sanitari, ma anche perché aveva riconosciuto l’effetto terapeutico dei giardini sul benessere dei pazienti e, per questo, aveva promosso l’istituzione di parchi e giardini annessi agli ospedali.
Il museo londinese era entusiasta di poter celebrare i duecento anni della nascita di Florence ed aveva allestito una mostra speciale, “Nightingale in 200 Objects, People and Places”, che ora è visitabile online.
Purtroppo, come altri piccoli musei, che non dispongono di sovvenzioni pubbliche, adesso l’istituzione rischia di chiudere per sempre e vedere le sue collezioni disperse altrove.
Per salvare il museo di Florence Nightingale, è stata istituita una pagina GoFundMe per raccogliere denaro, ma si possono fare anche donazioni sul sito web o tramite l’invio di messaggi sms; alternativamente, si può fare shopping nel negozio online o acquistare un biglietto per visite future.

La Cultura in Quarantena

MuseumofCroydonFin dalla chiusura forzata, a causa della pandemia di Covid-19, i musei hanno lavorato dietro le quinte per definire strategie e per coinvolgere il pubblico attraverso il digitale. In pochi giorni, è comparso un hashtag sui social: #MuseumFromHome.  Questo hashtag ha rappresentato la volontà e la necessità di continuare ad educare, stimolare ed ispirare la gente durante un periodo difficile come quello della quarantena.

Senza che questo fosse pianificato, mi sono trovata coinvolta anch’io nel progetto di fare ed offrire qualcosa di diverso in risposta ad una situazione senza precedenti.
A novembre 2019, stavo cercando un’opportunità di volontariato, possibilmente in un museo locale, sia per  rendere le collezioni più accessibili, sia per migliorare le mie capacità nell’interpretazione degli oggetti.
Quando ho visto che il Museo di Croydon stava cercando qualcuno che potesse lavorare con la loro collezione e  curare una selezione di oggetti da impiegare in esperienze sensoriali tattili, ho fatto subito domanda!
Il Museo possiede un’interessante collezione di circa 300 oggetti (dal periodo vittoriano in poi) che avevano  bisogno di essere raggruppati e organizzati in scatole a tema, per offrire sessioni in gallerie o prestiti alle scuole. Ho iniziato il mio volontariato a gennaio, ed è stata un’esperienza appagante. Ho svolto ricerche sulla collezione, e, durante lo sviluppo del database, ho collegato gli oggetti a temi specifici. Tutte le scatole a tema che ho creato (e creerò in futuro), contengono una selezione di oggetti e schede informative, con un’immagine dell’oggetto, il numero di catalogo e un breve contenuto.
Ero molto entusiasta alla prospettiva di inaugurare la mia prima valigetta a tema in un evento speciale che doveva tenersi il 27 marzo. Purtroppo, questa serata non ha potuto aver luogo, a causa dell’emergenza Covid-19. Tuttavia, mentre il Museo è chiuso al pubblico, questa selezione di oggetti è ora disponibile in forma digitale, così come la mostra a cui sono legati.
Fortunatamente, posso continuare a svolgere il mio volontariato da casa e creare altre scatole virtuali, fino a quando il Museo non riaprirà e i visitatori avranno l’opportunità di manipolare gli oggetti che ho selezionato. Questa esperienza virtuale ovviamente non può sostituire quella tattile sensoriale, ma è comunque un modo intelligente per esplorare il ricco patrimonio di Croydon, coinvolgendo il pubblico da casa, che può anche contribuire con storie e riflessioni personali.

Il cibo e l’arte e il nuovo decennio…

Finisce un anno e ne comincia un altro e io mi sento come Giano bifronte, che guarda in due direzioni, molto diverse, e si sente ancora immerso nel decennio appena concluso, mentre una faccia è già orientata al futuro.
Del resto, la pausa natalizio-mangereccia non del tutto passata, ha radici molto antiche, precristiane. Dai Saturnalia ai riti propiziatori delle culture agricole del mondo antico.
Il tempo per quegli uomini aveva un andamento ciclico, di morte e rinascita, e seguiva il percorso del sole, le stagioni e le fasi lunari. Questa fine-inizio, con le sue implicazioni profonde, arriva fino a noi, menti moderne, a creare un po’ di ansia e aspettativa.
Allora, io vi propongo un doppio appuntamento con il passato, tra Italia e UK, per esplorare il rapporto dell’uomo con il cibo, le abitudini sociali e la ritualità.
A Roma, la mostra Pompei e Santorini – L’eternità in un giorno (fino al 6 gennaio), presenta oltre trecento oggetti, e ripercorre un arco di tempo che va dall’età del bronzo ai nostri giorni, attraverso il Mediterraneo.
A Oxford, Last Supper in Pompeii (fino al 12 gennaio) mostra un analogo numero di reperti, tra cui utensili da cucina, mosaici e resti di cibo, ed esamina il rapporto degli antichi romani (da Pompei a Londinium) con il cibo e l’agricoltura
Comune denominatore delle narrazioni è la catastrofe, che, tacita, incombe e muta il corso delle società umane.
scheletro carpe diemGli antichi Romani non avevano timore di evocare la morte, che, anzi, era un modo per ricordarsi di godere del momento e dei suoi piaceri terreni.
La filosofia epicurea del carpe diem ha sicuramente ispirato i padroni della Casa delle Vestali ad adornare il pavimento della sala da pranzo con uno scheletro coppiere (in prestito ad Oxford dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e farne così uno strano, quanto umoristico, fulcro dei loro banchetti, le cui tavole erano allietate da pietanze e bevande servite in magnifici servizi d’argento.
Pompei era rinomata per la sua produzione di argenteria.
Tazze d’argento dorate, decorate con la tecnica del repoussé, abbellite da rilievi di piante sacre (olivo, vite e mirto) sono in mostra all’Ashmolean Museum. Alle Scuderie del Quirinale, invece, si può ammirare il magnifico servizio da tavola rinvenuto a Moregine, che include sia l’argento da portata (escarium) che quello per i liquidi (potorium).
Mangiare, bere e produrre cibo erano attività consuete anche ad Akrotiri, nell’isola di Santorini.
L’antica città fu distrutta da un’eruzione vulcanica nel secondo millennio a.C., ma è probabile che la popolazione sia riuscita a mettersi in salvo e portare con sé gioielli e oggetti preziosi.
Restano, tuttavia, tazze e vasellame di terracotta di estrema vivacità e bellezza, decorate con motivi geometrici a spirale o elementi naturalistici ispirati all’ambiente dell’isola, come delfini, uccelli, bovini, fiori di croco, racemi, conchiglie.
vaso croco da akrotiriLa natura, incontaminata o modellata dall’uomo, era un elemento importante.
Si stima che un terzo delle case pompeiane disponesse di un giardino privato.
Lo spazio poteva avere funzione utilitaria, ad esempio per coltivare ortaggi o erbe medicinali, ma serviva anche come estensione della casa, per mangiare, socializzare o purificarsi.
I cittadini più ricchi potevano installare fontane ornamentali, decorate con mosaici e statue.
A Oxford si può ammirare un pescatore di bronzo, proveniente dalla Casa della Piccola Fontana; a Roma, il bel ninfeo della Casa del Bracciale d’Oro, rivestito da mosaici policromi in pasta vitrea, conchiglie e schiuma di lava.
La Casa del Bracciale d’Oro era una delle abitazioni più lussuose di Pompei. Qui, i banchetti estivi avvenivano in un triclinio aperto sul giardino, di cui il ninfeo costituiva il fulcro.
affresco giardino pompeiQuesta sala di rappresentanza era abbellita con le più accurate scene di giardino di III stile (anch’esse esposte a Roma), così realistiche da consentire il riconoscimento di diverse specie di piante e uccelli dell’epoca.
Dimore affrescate esistevano anche nell’antica Akrotiri, da cui provengono meravigliose e suggestive immagini.
La Casa Occidentale era decorata con storie di viaggi per mare, giovani pescatori e bellissime sacerdotesse occupate in rituali misteriosi.
Tra l’Egeo e il Tirreno predominava infine quella dieta mediterranea consumata ancora oggi, fatta in maggioranza di olive, noci, grano e legumi, frutta, pesce e molluschi. Ce la testimoniano resti di conchiglie, olio solidificato nel suo vaso di vetro, pani e fichi carbonizzati, anfore per il garum e per i datteri, modelli di dolci e melograni.
Sia la mostra di Oxford che quella di Roma guardano oltre l’orrore dell’improvvisa distruzione, per celebrare l’esistenza degli abitanti di Akrotiri e Pompei.
Il banchetto, per gli antichi come per noi, è l’epitome della vita (degli amici, della famiglia, dei contatti di lavoro).
Una festa che ci conduce, ebbri e sazi, alla fine e all’inizio di tutte le cose, all’avvio di una nuova gestazione.

“Elle est retrovèe/Quoi? L’eternité”

A Londra, la mostra sul mito della città di Troia

Troy, vaso grecoDalla notte dei tempi, la mela è un frutto controverso, simbolo di bellezza, trasgressione, duplicità, maleficio, peccato. La si ritrova puntualmente in miti, leggende, fiabe, narrazioni sacre. Dalla mela di Eva a quella di Biancaneve, dai pomi d’oro delle Esperidi alla mela di Newton.
Anche la nostra storia inizia con una mela.
Eris, dea del conflitto, ne getta una d’oro per creare scompiglio nel banchetto a cui non è stata invitata.
Una triade di dee se la contende e Zeus, seccato, propone a Paride, bel principe troiano, di scegliere la fortunata vincitrice.
Era, Atena e Afrodite promettono potere, onori e beltà al giovane, ma non saranno le offerte di fortune materiali a convincerlo, bensì l’amore. Afrodite vincitrice si aggiudica la mela d’oro e, in cambio, fa incontrare a Paride la donna più bella del mondo. Peccato che quest’ultima sia Elena, la moglie del re di Sparta, Menelao. Il mito e le sue rappresentazioni si dividono tra seduzione e rapimento. In ogni caso, l’affronto subito è troppo grande e si scatena una guerra tra Greci e Troiani. Quando Omero canta le gesta degli eroi, dell’una e dell’altra parte, la guerra di Troia imperversa già da un decennio e sta per volgere al tragico epilogo, con l’inganno del cavallo, la disfatta dei troiani e la diaspora che ne seguirà: la fuga di Enea e le peregrinazioni di Odisseo.
L’Iliade, l’Odissea e poi l’Eneide, sono sopravvissute alla caduta dei regni antichi, i versi trascritti nel silenzio dei conventi, le gesta miniate nei volumi del Rinascimento, i contenuti imitati ed ammirati come modello di classicità, fino a riproporli nella bianchezza dei marmi e nella levità delle forme del revival neoclassico. I versi di Omero (e poi di Virgilio) ci raccontano la storia degli uomini, fatta di coraggio e arroganza, mettendoci in contatto con le radici più profonde della nostra umanità.
Alla fine dell’ottocento, Heinrich Schliemann, guidato dal sogno di gioventù di ritrovare la città cantata da Omero, scava nei pressi di una collina di pietre cadute a Hisarlık nella Turchia occidentale, vicino alla foce dei Dardanelli. Il mercante, improvvisatosi archeologo, nel 1873, rinviene una città antica, costituita da molti strati, e, da allora, il sito è generalmente accettato come quello della Troia omerica.
Tra i dissepolti resti, emerge anche un tesoro, quello detto di Priamo, conservato per la maggior parte al museo Pushkin di Mosca. Ancora vive ed irrisolte restano le controversie sul tesoro troiano, preso dall’Armata Russa, al tempo della sconfitta nazista, nel 1945, e tutt’ora oggetto di negoziati tesi e infruttuosi tra Berlino e Mosca. La dea Eris aleggia ancora sul bottino di guerra.
I versi di Omero ci parlano di ire funeste, abusi di potere, conflitti mortali, vulnerabilità e bisogno di empatia. Storie che si ripetono e che rendono il mito attuale.

Troy: mith and reality, è in mostra al British Museum, fino all’8 marzo 2020.

La mostra di Olafur Eliasson a Londra

olafur_eliasson_stardustEra la fine di settembre 2003 quando approdai a Londra per rimanerci in pianta stabile (non avevo idea se si trattasse di un trimestre o più a lungo, certo non immaginavo tutti questi anni). Avevo un’idea astratta dell’autunno londinese, me lo immaginavo tutta nebbia e umidità.
Invece, mi ritrovai a vivere una stagione dorata, graziata dalle giornate di sole dell’Indian Summer e dalle bellissime cromie delle foglie, in procinto di cadere.
Era l’inverno che non conoscevo ancora, con le sue albe ritardatarie, la luce elettrica alle 8 di mattina, il buio che ti piombava addosso alle 16, le occasionali spolverate di neve, il vento gelido.
Fu proprio in quel primissimo inverno, davvero grigio, che un sole artificioso e artificiale rischiarò il mio tempo libero.
Alla Tate Modern, nella Turbine Hall, l’artista Olafur Eliasson aveva installato The Weather Project. Il concetto era semplice: un semicerchio di luce, riflesso in uno specchio, e un po’ di foschia per ammorbidire lo spazio.
La sala si trasformava in un palcoscenico, dove la gente si fermava a guardare, si sdraiava sul pavimento, si metteva a fare yoga. Era solo uno specchio e un semicerchio di luce, ma per noi quello era un sole, un disco di luce amica, perennemente al tramonto, che rischiarava le nostre giornate buie.
L’installazione non è mai più stata ripetuta, sembra che i materiali giacciano in varie scatole, nella cantina dell’artista danese-islandese, che, nel frattempo, ha creato altre situazioni, installato altre meraviglie.
Olafur Eliasson Ice Watch 2018La più recente, proprio lo scorso autunno, si intitolava Ice Watch.
Eliasson, in collaborazione con il geologo Minik Rosing, aveva estratto 30 blocchi di ghiaccio dalla Groenlandia e li aveva piazzati in vari spazi pubblici, da Copenhagen a Parigi, fino a Londra (alcuni davanti alla Tate Modern, altri di fronte al quartier generale di Bloomberg, nella City), per lasciarli sciogliere e sottolineare così la necessità urgente di agire contro i cambiamenti climatici.
Ora, le affascinanti installazioni di Olafur Eliasson sono protagoniste di una retrospettiva alla Tate Modern. Di queste opere, solo una era stata già presentata nel Regno Unito (Room for One Colour), le altre, invece, sono inedite e introducono i visitatori alla riproduzione di fenomeni naturali oppure utilizzano riflessi e ombre per alterare la percezione e la relazione con lo spazio.

In Real Life è una mostra immersiva, piena di meraviglie: piove con il sole, una candela brucia da ambo i lati, una macchina produce ombre, una parete è interamente coperta di muschio, l’arcobaleno nasce in una stanza, si può entrare in un caleidoscopio, assistere alle danze eteree di un ectoplasma.
olafur eliasson studioLa mostra inizia e termina con i progetti e le diverse attività in cui Eliasson è impegnato, dallo studio di forme naturali, alle imprese sociali e ai progetti con rifugiati, fino alle idee più innovative in architettura e le indagini concettuali su un’esperienza quotidiana come quella di preparare il cibo.
Al piano terra della Turbine Hall ci si diverte a costruire città immaginarie, fatte di lego bianco, mentre, fuori dalla Tate, una cascata d’acqua sgorga chiassosa da una struttura metallica di 11 metri (Waterfall-2019).
Quella di Eliasson è una visione teatrale ed estraniante del mondo, di cui tutti facciamo parte e condividiamo le sorti.

Piccoli miracoli da gustare, come un sole straordinario, nel buio opprimente dell’inverno.

Beyond Oceania: esperimento di scrittura creativa

TupaiaDiario di Bordo del Capitano:

3 giugno 1769

”Questo giorno si è rivelato favorevole al nostro scopo, come volevamo, non una nube è stata vista in tutto il giorno e l’aria era perfettamente limpida, così abbiamo avuto tutti i vantaggi che potevamo desiderare…”

Sedeva in riva al mare, il ‘tatau’ fresco gli bruciava la spalla e la testa era pesante a causa del gin del capitano. Ne aveva trangugiato un bel po’ per stordirsi dal dolore, mentre la punta d’osso, intrisa di pigmento, gli penetrava le carni. Gli indigeni andavano fieri dei loro tatuaggi. chief mournerErano segno di emancipazione, perseveranza e risoluzione nell’affrontare le sofferenze.
Aveva accettato di farsi marcare la pelle candida, poiché nessun uomo maturo e rispettabile nel villaggio appariva sprovvisto di ornamenti indelebili. Ce ne erano di ogni tipo: navigli, denti di squali, mezzelune, cerchi, punte di lance, animali stilizzati, linee frastagliate come onde del mare. Ogni colpo appuntito affondava nei tessuti un colore denso fatto di olio bruciato, che si mescolava al sangue vivo. Una giovinetta reggeva il colore contenuto in una mezza noce di cocco, e gli sorrideva, mostrando denti che parevano perle. Tra il dolore e i fumi dell’alcol, ricordava solo lo sguardo curioso e i capelli lucidi di monoi che le lambivano i piccoli seni, mentre un suono ritmato e lontano gli giungeva all’orecchio.
Ad ondate, il dolore gli faceva pulsare le tempie, mentre a denti stretti cercava di ricacciarlo indietro.
Gli sembrò allora di essere finito nel caldo soffocante di un interno signorile, stordito da odori diversi: le candele di cera colante, la brace nella bocca scura del camino di marmo lavorato, lo cherry nei bicchieri di vetro bianco e blu, le carte da gioco un po’ stantie, con gli angoli consumati ed il contorno scuro, per le troppe partire di whist.
Lo sguardo si spostava, febbricitante, dalle figure sbiadite delle carte che teneva in mano al collo bianco della donna che era sua amante. La osservava conversare, discreta e gentile, con alcuni amici, all’angolo della sala. S. tendeva un foglio srotolato tra le mani, e le accennava chissà quali segreti del mondo naturale. Lei chinava il capo per guardare meglio, facendo cenno di indicare qualcosa con la punta del ventaglio richiuso. La ricordava così, esile e delicata, una lacrima che le solcava silenziosamente la guancia, mentre si salutavano.
Sentiva ancora il sale di quella lacrima, ma il porto di Plymouth era lontano, lontanissimo.
Ora c’erano sorrisi e sguardi diversi, quasi divertiti, di nativi vestiti di tatuaggi e unti di olio rancido, che gli indicavano l’opera appena conclusa: un ‘amoco’ nerastro, intricato e rappreso al suo sangue.
oceania royal academyDopo quella singolare iniziazione, aveva raccattato una bottiglia tra le pacche di rispetto bonario di alcuni uomini di equipaggio che gli offrivano la pipa ed il tabacco. Non aveva voglia di fumare, aveva raggiunto barcollante la spiaggia e si era addormentato, sfinito dalla prova e assalito dalla nostalgia.

Gli risuonavano nella testa queste parole:
“Il mio tatuaggio è una gemma permanente, che porterò con me nella mia tomba.”

 

La mostra “Oceania”, in collaborazione con il British Museum, il Musée du quai Branly-Jacques Chirac di Parigi e il Museum of Archaeology and Anthropology di Cambridge, è alla Royal Academy di Londra fino al 10 dicembre.