The Moon è una mostra speciale, inaugurata proprio nel cinquantesimo anniversario della missione di Apollo 11, che esplora, in quattro sezioni distinte, le relazioni dell’umanità con la Luna, il corpo celeste più vicino alla Terra.
Il nostro satellite è rappresentato sia artisticamente che scientificamente. Si va da strumenti di navigazione, visioni mistiche, calendari, trattati di medicina, amuleti ed interpretazioni poetiche di artisti e scrittori, all’osservazione diretta della luna, grazie all’invenzione del telescopio, con disegni scientifici, pubblicazioni, mappe, dagherrotipi, fotografie.
Il documento più antico in mostra è una tavoletta cuneiforme, in prestito dal British Museum, risalente ad oltre 2000 anni fa. Si citano le varie fasi lunari ed un’eclissi, considerata foriera di presagi oscuri. La Luna è una divinità, per i Greci, i Romani, gli Egizi, i Celti e molte altre antiche civiltà. Triforme, governa le maree, regola l’agricoltura, il tempo, gli umori, simboleggiando la rinascita.
Il 1609 è un anno importante per la storia della Luna.
A luglio, in Inghilterra, Thomas Harriot realizza il suo primo disegno lunare, usando un tubo ottico.
In Italia, probabilmente nelle stesse settimane, Galileo Galilei, grazie ad un telescopio più potente, traccia cinque disegni, abbastanza precisi, osservando la luna in varie fasi. Questi disegni andranno a corredare il suo libro, Sidereus Nuncius, destinato ad avere un successo internazionale.
All’inizio del XVII secolo, si credeva che i pianeti, inclusa la Luna, fossero sfere perfette e immutabili, che ruotavano intorno alla Terra. Tuttavia, le osservazioni telescopiche suggerivano contrario.
Galileo si spinse oltre e scoprì che Giove aveva quattro satelliti. Questo lo indusse a pensare ad un sistema centrato sul sole, in cui la Terra si comportasse tale e quale ad altri pianeti.
La Luna presentava al telescopio caratteristiche molto simili alla Terra, ad esempio montagne e crateri, ma anche zone oscure, che gli astronomi interpretarono come mari e laghi.
Nel 1651, il gesuita italiano Giovan Battista Riccioli pubblicava l’opera Almagestum Novum. La nomenclatura lunare esposta da Riccioli è utilizzata ancora oggi. A lui si devono i nomi emotivi dei mari o quelli di uomini illustri per i crateri.
Oltre un secolo dopo, a metà tra arte e scienza, si situano invece gli importanti lavori di John Russell, un pastellista inglese del diciottesimo secolo. Di giorno, Russell realizzava i ritratti della società alla moda, tra cui quello, in mostra, di Joseph Banks. Qui, il presidente della Royal Society, è ritratto di tre quarti, con in mano uno dei pastelli lunari di Russell. Banks credeva che fosse necessario un “occhio d’artista” come quello di Russell per comprendere meglio la Luna, al di là di quello che si percepiva al telescopio. Per oltre un ventennio, Russell fece le ore piccole a disegnare la Luna e, da queste notti insonni e febbrili, scaturì un gruppo di meravigliosi “ritratti” lunari. Inoltre Russell creò una una mappa lunare sferica, che chiamò Selenographia. Questo globo lunare è anch’esso in mostra ed è un affascinante manufatto illuminista, atto a riprodurre le librazioni, o movimenti, della Luna rispetto alla Terra.
Poco più di un cinquantennio dopo, in epoca vittoriana, dagherrotipi e fotografie permisero di meglio immortalare il satellite, in tutti i suoi aspetti. Nel mondo si diffusero atlanti e mappe lunari molto accurati.
Con la nascita del cinema, il sogno di andare sulla luna, prese forma. Dal viaggio romantico dei fratelli Lumiere (Le Voyage dans la Lune), alla missione futuristica di Fritz Lang (Frau im Mond) l’immaginario collettivo si nutrì delle visioni accurate e antesignane di Stanley Kubrick, avvicinandosi ad una vera e propria estetica spaziale. L’uscita di 2001: Odissea nello Spazio precedette di un anno l’allunaggio dell’Apollo 11. Il regista aveva studiato da vicino la meccanica e la fisica del volo spaziale e la stazione ruota del film si era ispirata proprio ai primi progetti aerospaziali dell’ingegnere NASA Wernher von Braun.
La mostra prosegue con una sezione tutta dedicata a documenti e manufatti del programma spaziale Apollo in prestito dallo Smithsonian National Air and Space Museum di Washington DC.
Sebbene l’ultima missione NASA corrisponda al 1972 (Apollo 17), l’era delle esplorazioni lunari non è finita. India e Cina ora puntano alla Luna, gli USA la vogliono utilizzare come trampolino di lancio per arrivare fino a Marte, Foster + Partners hanno progettato per European Space Agency una base lunare, studiando l’uso della regolite come materia da costruzione. Il modulo può ospitare quattro persone, ed è in grado di offrire protezione da meteoriti, radiazioni gamma e fluttuazioni di temperatura.
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Beyond Oceania: esperimento di scrittura creativa
3 giugno 1769
”Questo giorno si è rivelato favorevole al nostro scopo, come volevamo, non una nube è stata vista in tutto il giorno e l’aria era perfettamente limpida, così abbiamo avuto tutti i vantaggi che potevamo desiderare…”
Sedeva in riva al mare, il ‘tatau’ fresco gli bruciava la spalla e la testa era pesante a causa del gin del capitano. Ne aveva trangugiato un bel po’ per stordirsi dal dolore, mentre la punta d’osso, intrisa di pigmento, gli penetrava le carni. Gli indigeni andavano fieri dei loro tatuaggi. Erano segno di emancipazione, perseveranza e risoluzione nell’affrontare le sofferenze.
Aveva accettato di farsi marcare la pelle candida, poiché nessun uomo maturo e rispettabile nel villaggio appariva sprovvisto di ornamenti indelebili. Ce ne erano di ogni tipo: navigli, denti di squali, mezzelune, cerchi, punte di lance, animali stilizzati, linee frastagliate come onde del mare. Ogni colpo appuntito affondava nei tessuti un colore denso fatto di olio bruciato, che si mescolava al sangue vivo. Una giovinetta reggeva il colore contenuto in una mezza noce di cocco, e gli sorrideva, mostrando denti che parevano perle. Tra il dolore e i fumi dell’alcol, ricordava solo lo sguardo curioso e i capelli lucidi di monoi che le lambivano i piccoli seni, mentre un suono ritmato e lontano gli giungeva all’orecchio.
Ad ondate, il dolore gli faceva pulsare le tempie, mentre a denti stretti cercava di ricacciarlo indietro.
Gli sembrò allora di essere finito nel caldo soffocante di un interno signorile, stordito da odori diversi: le candele di cera colante, la brace nella bocca scura del camino di marmo lavorato, lo cherry nei bicchieri di vetro bianco e blu, le carte da gioco un po’ stantie, con gli angoli consumati ed il contorno scuro, per le troppe partire di whist.
Lo sguardo si spostava, febbricitante, dalle figure sbiadite delle carte che teneva in mano al collo bianco della donna che era sua amante. La osservava conversare, discreta e gentile, con alcuni amici, all’angolo della sala. S. tendeva un foglio srotolato tra le mani, e le accennava chissà quali segreti del mondo naturale. Lei chinava il capo per guardare meglio, facendo cenno di indicare qualcosa con la punta del ventaglio richiuso. La ricordava così, esile e delicata, una lacrima che le solcava silenziosamente la guancia, mentre si salutavano.
Sentiva ancora il sale di quella lacrima, ma il porto di Plymouth era lontano, lontanissimo.
Ora c’erano sorrisi e sguardi diversi, quasi divertiti, di nativi vestiti di tatuaggi e unti di olio rancido, che gli indicavano l’opera appena conclusa: un ‘amoco’ nerastro, intricato e rappreso al suo sangue.
Dopo quella singolare iniziazione, aveva raccattato una bottiglia tra le pacche di rispetto bonario di alcuni uomini di equipaggio che gli offrivano la pipa ed il tabacco. Non aveva voglia di fumare, aveva raggiunto barcollante la spiaggia e si era addormentato, sfinito dalla prova e assalito dalla nostalgia.
Gli risuonavano nella testa queste parole:
“Il mio tatuaggio è una gemma permanente, che porterò con me nella mia tomba.”
La mostra “Oceania”, in collaborazione con il British Museum, il Musée du quai Branly-Jacques Chirac di Parigi e il Museum of Archaeology and Anthropology di Cambridge, è alla Royal Academy di Londra fino al 10 dicembre.
A Londra, un giardino “segreto”: Chelsea Physic Garden
Come suggeriva Jean Jaques Rousseau, mi sforzo di cercare la “route du vrai bonheur“. E, spesso, per me, la strada della serenità, attraversa un parco, o punta dritta al cancello di un giardino recintato. Il Chelsea Physic Garden fu creato nel 1673, dalla Venerabile Compagnia degli Speziali, affinché i suoi apprendisti potessero studiare le qualità medicinali delle piante. Nel tempo, il giardino divenne uno dei più importanti centri di botanica, con piante da tutto il mondo. E’ tuttora un giardino botanico, ma ha un piacevole aspetto ornamentale, con vialetti regolari e radure. La posizione del giardino, vicino al Tamigi, fu scelta in origine per consentire alle piante non indigene di crescere in un microclima più caldo. Nel 1737, la Compagnia degli Speziali eresse una statua in segno di gratitudine a Sir Hans Sloane, che aveva loro affittato, in perpetuo, quattro acri di terreno per 5 sterline l’anno (a condizione che il Giardino rifornisse la Royal Society di una cinquantina di campioni l’anno). Sloane, medico, direttore della Royal Society ed eminente figura dell’Illuminismo britannico, è noto per aver introdotto sia l’uso della china come cura per la malaria sia la bevanda a base di latte e cacao, che tutti conosciamo. Il giardino di piante medicinali, area fondamentale sin dalla sua fondazione, rappresenta per il visitatore un affascinante viaggio attraverso la storia e l’uso delle piante medicinalidi tutto il mondo. Il Giardino contiene anche un’area con le piante commestibili o utili ed un giardino di pietra, dedicato alle piante alpine, che è il più antico in Inghilterra e contiene esemplari di lava islandese portati da Sir Joseph Banks, nel 1772. Chelsea Physic Garden è un ente di beneficenza, ed ha aperto al pubblico nel 1983. Nel 1995 ne fa parte la Florilegium Society, ente costituitosi con l’obiettivo primario di registrare in dipinti e disegni le piante che crescono nel giardino, in modo da creare un archivio iconografico. All’inizio del XVIII secolo artisti botanici come Georg Dionysius Ehret ed Elisabeth Blackwell lavorarono qui, ed illustrarono, oltre alle piante, molte specie di farfalle. Se vi recate a Chelsea Physics Garden in questo periodo, non mancate di visitare la serra dei pelargoni. Pelargonium viene dal Greco Pelargos, che significa cicogna, poiché la forma del seme ricorda la testa e il becco di quell’uccello. Linneo, nella sua classificazione, aveva originariamente posto Pelargonium nel genere Geranium. I due generi furono separati nel 1789, dato che, in Pelargonium, i cinque petali sono divisi in due superiori e tre inferiori, ed hanno dimensioni diverse. Il giardino custodisce esemplari di svariati colori, provenienti da paesi caldi come le Canarie e l’Africa australe. Sono in piena fioritura e molto affascinanti. Alcuni di essi, hanno proprietà medicinali. La radice di Pelargonium Sidoides, infatti, contiene uno stimolante immunitario e viene usata per curare raffreddori.
La casa della Scienza, nel cuore di Mayfair
Cosa hanno in comune la corrente elettrica di cui disponete ogni giorno, il cloro che disinfetta la piscina del vostro quartiere, il sale che mettete in tavola? Sono tutti elementi che furono isolati e scoperti, assieme a molti altri, alla Royal Institution of Great Britain. Questa prestigiosa istituzione scientifica, venne fondata nel 1799, durante una riunione di eminenti studiosi a casa di Joseph Banks, presidente della Royal Society ed illustre botanico. Da due secoli la Royal Institution si dedica all’istruzione e alla ricerca scientifica, ed ha la sua sede al 21 di Albemarle Street. E’ qui che Sir Humphrey Davy scoprì il sodio ed il potassio, Michael Faraday portò avanti gran
parte delle sue ricerche, Henry Hallet Dale studiò le trasmissioni chimiche degli impulsi nervosi. La RI è aperta a tutti, previo pagamento di una sottoscrizione annua, e propone conferenze pubbliche e programmi per le scuole. Inoltre, un venerdi sera al mese, un famoso scienziato tiene una lezione di un’ora di fronte ai membri dell’istituzione e ai loro ospiti. Al bell’edificio georgiano si accede tramite un accogliente atrio scandito da colonne corinzie. Al piano inferiore, si trova il Faraday Museum, il laboratorio originale dove lo scienziato condusse i suoi esperimenti a meta’ del XIX secolo. Al piano terra, ci sono una biblioteca ed un caffè, dove sono esposti un certo numero di strumenti ottici.
Un’elegante ed imponente scalinata, poi, conduce al piano superiore, dove, oltre a due altre biblioteche, si trova il teatro progettato da Thomas Webster, in cui studiosi di fama internazionale hanno promulgato e continuano a promulgare il loro sapere, svelando i segreti dei fenomeni del mondo che ci circonda.
È possibile visitare il laboratorio di Faraday gratuitamente, dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 18:00. Talvolta, la mostra potrebbe essere chiusa per eventi privati, quindi è bene chiamare lo 0044 (0) 20 7409 2992, prima della vostra visita.
Nei cortili di Fleet Street…
Ora che la primavera è tornata, è un piacere riprendere i miei vagabondaggi. In una calma domenica mattina me ne sono andata in giro con il naso per aria e una guida rossa Ward Lock & Co del 1925-1926 in tasca. La casa editrice Ward, Lock & Co ebbe inizialmente il suo quartier generale a Fleet Street e successivamente a Salisbury Square. Dopo che, nel dicembre del 1940, le bombe avevano distrutto la sede di Warwick House, l’azienda si trasferì a Chancery Lane e poi a Piccadilly. Alla ricerca di atmosfere nascoste, ho peregrinato per quello che, fino al 1980, era il famoso centro giornalistico di Londra. Oggi, Fleet Street racconta la storia della stampa e dell’editoria attraverso targhe sul marciapiede, cartelli fantasma e cimeli dimenticati. Ma il passato non sembra poi così remoto ogni volta che sfoglio la mia guida rossa. La maggior parte dei luoghi di interesse sopravvivono ancora oggi, nonostante la Seconda Guerra Mondiale, opere di riqualificazione urbana e traslochi. I piccoli vicoli immediatamente alle spalle del traffico e del rumore di Fleet Street sono una vera scoperta. Essi accolgono il viandante attraverso aperture strette e scure, sorprendendone i sensi con una sinfonia di vecchi mattoni, bianche cornici e modestia settecentesca. La prima tappa è a Crane Court. Questo vicolo sonnolento, vide le prime riunioni della Royal Society (1710-1780) e fu attraversato dalle menti illuminate di Joseph Banks, Hans Sloane e Benjamin Franklin, che si qui si dilettarono in vivaci dibattiti, contribuendo ai progressi scientifici. Anche il primo quotidiano britannico, il Daily Courant, vide la luce a questo indirizzo, nel 1702. Una caratteristica casa a schiera, con le pareti di mattoni rossi e le bianche finestre arretrate rispetto alla facciata, porta la firma di Nicholas Barbon, speculatore finanziario ed importante costruttore nella Londra del XVII secolo. Più avanti, Red Lion Court è un passaggio tranquillo a pochi passi da Fetter Lane. I suoi edifici in mattoni hanno assistito alla nascita del primo carattere tipografico sans-serif (William Caslon IV, 1816) e alla pubblicazione di periodici classici e traduzioni dal latino e dal greco ad opera di Abraham Valpy (1822 -1837). Seguendo i muri anneriti e poi girando a destra si può raggiungere Gough Square, dove, al n.17, sorge un raffinato esempio di casa di città della fine del XVII secolo.
Fu in questo edificio, oggi un museo, che, tra il 1748 e il 1759, visse il dottor Samuel Johnson. La casa è un viaggio in se stessa e merita una visita, con i suoi pannelli scuri, le goffe scale, i manoscritti e i ritratti, le stampe e il servizio da tè, i divisori in legno e la grande soffitta, dove il famoso Dizionario vide la luce. Il dottor Johnson era un appassionato di Londra e della vita, di poesia e letteratura, ma anche del suo gatto, Hodge. James Boswell, biografo di Johnson, ci dice che quell grand’uomo “soleva uscire a comprare ostriche, per timore che i servi avessero qualche problema e dovessero prendere in antipatia la povera creatura”.
Hodge è stato immortalato in una statua di bronzo, di fronte alla casa. “Un bel gatto davvero” seduto sul celebre Dizionario, con un paio di gusci di ostriche vuoti al lato. Il dottor Johnson e la sua cerchia probabilmente percorrevano la breve distanza da Gough Square a Wine Court Office, per bersi una pinta al Ye Olde Cheshire Cheese, una taverna costruita nel 1667, immediatamente dopo il grande incendio di Londra. Il pub resta in piedi ancora oggi ed è assai caratteristico, per gli interni cupi e pittoreschi, frequentati nel tempo da avventori del calibro di Charles Dickens e Arthur Conan Doyle. Un’altro personaggio la cui memoria si lega al locale, fu Polly, un pappagallo grigio. Il pennuto, all’inizio del secolo scorso, era celebre per le battute insolenti e l’impareggiabile imitazione dell’esplodere di tappi di bottiglia. Morì quarantenne di polmonite, nel 1926, anno in cui la mia guida rossa usciva in libreria. E il cerchio si chiude.
Sconfinamenti
In una metropoli come Londra, esistono molte frontiere. Quella più antica, tra la riva nord e quella sud del Tamigi, e poi i confini tra Est e Ovest, e quelli tra la City of London e Westminster.
La città si è talmente espansa, che ci sono luoghi lungo le linee metropolitane in cui difficilmente ci si avventura.
I confini londinesi rappresentano uno spazio identitario, che spesso si confonde e si stempera, tra fessure e smagliature, in cui flussi in movimento penetrano e modificano la percezione dell’altro da sé, dell’oltre frontiera. Ogni volta che mi reco ai margini occidentali della città, provo un senso di avventura, di curiosità e dislocamento, che solo l’andare oltre i soliti scenari può dare.
L’occasione per l’ennesimo sconfinamento, mi è stato offerto da un invito della Gatta, food blogger in London TW7, la quale mi ha proposto una merenda da lei. Isleworth, che non avevo mai visitato, ha conservato l’atmosfera del villaggio rurale, con i giardini chiusi da muretti, dritti filari di alberi vetusti e piccole botteghe d’altri tempi: quella del macellaio, il forno, ed un surreale negozio di petardi. La zona è davvero molto antica, corrisponde infatti ad un insediamento sassone (ancor prima romano), menzionato nel Domesday Book (1086) con il nome di Gistelesworde. Nei secoli Isleworth fu, di volta in volta, baronia normanna, ducato di Cornovaglia, possedimento del monastero di Syon ed infine, dopo la dissoluzione degli ordini, patrimonio del duca di Somerset. Passò poi ad altre nobili casate, fino al XVIII secolo, quando venne trasformata in frutteti e giardini, per il rifornimento dei mercati londinesi. Caratteristica di questo periodo fu la costruzione di molte dimore e case di grandi dimensioni, principalmente destinate ad aristocratici e ceti alti. Tra gli agiati residenti, spiccano alcuni personaggi illustri.
Nel 1779, Joseph Banks, naturalista e botanico inglese, stipulò un contratto di locazione, e poi acquistò, una bella casa con 34 acri di terra, lungo il lato settentrionale di quella che ora è la London Road. Questa residenza, Spring Grove House, esiste ancora. Banks si dedicò alla realizzazione di un giardino botanico nella sua tenuta, grazie alla grande varietà di piante esotiche, raccolte nei suoi viaggi intorno al mondo, in particolare durante le spedizioni in Australia e nei mari del sud, al seguito del capitano Cook. Alla morte di Banks, la casa passò ad altri proprietari, mentre, gran parte delle piante, venne trasferita a Kew Gardens.
Anche il pittore William Turner visse a Isleworth per un breve periodo. Nel 1804, lo troviamo a Syon Ferry House, luogo pittoresco, che gli fu d’ispirazione per la veduta di Hampton Court dal Tamigi. Persino Vincent Van Gogh soggiornò a Isleworth, lavorando per un breve periodo (1876) come supplente di studi biblici, in un collegio, gestito dal reverendo Slade-Jones.
Per tornare al presente, vi interesserà forse sapere che, la merenda a casa della Gatta, consisteva in una sfornata di meravigliose crostatine di farro alla nutella, realizzate seguendo la ricetta della crostata di marmellata di arance della zia, con l’accorgimento, però, di lasciare uno spessore di pasta di almeno mezzo centimetro, perché non si seccasse troppo. L’impasto, può essere preparato in largo anticipo e congelato, così da essere disponibile all’occorrenza.
Alle crostatine, abbiamo anche unito, con successo, direi, le tonalità calde e distinte di un tè alla violetta di Tolosa.