L’eccentrico ritratto di Hester Thrale Piozzi

wp-1475310275984.jpgIn una delle mie recenti visite alla National Portrait Gallery, sono rimasta colpita da un ritratto di modeste dimensioni, in cui la gentildonna sembra indossare degli abiti ed accessori lievemente diversi dal solito. Il rouge alle guance, la cuffia, i pizzi, la cromia dell’abito non costituiscono certo una novità nella moda femminile della fine del XVIII secolo, eppure qualcosa rende la dama particolare. La didascalia del quadro ne spiega la presenza: Hester Lynch Piozzi (nata Salusbury, poi Thrale), scrittrice ed amica del Dr Johnson. Il ritratto fu dipinto nel 1785-1786 da un pittore italiano, rimasto sconosciuto.
Hester fu una scrittrice assai prolifica e versatile. Produsse una biografia di Samuel Johnson in forma aneddotica, che andò esaurita nel primo giorno di pubblicazione, ed in seguito, pubblicò la corrispondenza privata (oltre trecento missive) che aveva scambiato con l’illustre letterato. Inoltre, nel 1789, diede alle stampe un vivace resoconto del suo Grand Tour, proprio quello in cui si trovava impegnata quando decise di posare per il ritratto. E’ la stessa Hester ad ammettere che la sua mise appare alquanto originale. Questo perché il vestito da viaggio era stato acquistato a Roma, il velo e la camicia a Napoli, il pizzo a Genova ed il resto dell’abbigliamento in Inghilterra. Il Grand Tour era stato un viaggio di scoperta ed istruzione, per lei, ma anche una luna di miele di due anni e mezzo, in compagnia del secondo marito, il musicista italiano Gabriele Piozzi.
Questa unione aveva creato un certo scandalo a Londra ed era stata vivamente disapprovata dagli amici e dalla primogenita di Hester, nonché dallo stesso Dr Johnson, con il quale si interruppe un rapporto di familiarità e collaborazione professionale, durato oltre sedici anni. Per una gentildonna come Hester era sconveniente il matrimonio con un emigrato Italiano, per niente nobile e, per giunta, cattolico. Inoltre risposarsi a 43 anni, per amore, appariva davvero un colpo di testa. Il primo matrimonio di Hester era durato un ventennio e lo sposo, il ricco borghese Henry Thrale, proprietario di una fabbrica di birra, le era stato caldamente proposto, e, in un certo senso, imposto, dallo zio e da sua madre, preoccupati entrambi per le sorti di una fanciulla piacevole, intelligente ed educata, ma povera di mezzi. Fu un matrimonio di interessi, costellato da tredici gravidanze (solo quattro figli sopravvissero all’età adulta), punteggiato di preoccupazioni, lutti e dispiaceri, tuttavia portato avanti con rispettabilità e lealtà. Nella casa di Streatham Park, Hester aveva assunto il ruolo di ospite impareggiabile ed aveva raccolto attorno a sé un nutrito gruppo di artisti e letterati, attratti dal magnetismo di Johnson ed intrigati dalle capacità poetiche e letterarie della padrona di casa, che traduceva fluentemente italiano, francese e latino, e continuava a scrivere e studiare, quando non era impegnata con la prole. Henry Thrale, un uomo severo, schivo e di poche parole, accettò di buon grado queste riunioni, ed, anzi, chiese a Joshua Reynolds di dipingere alcuni ritratti degli illustri ospiti, da appendere nella sua biblioteca. Inoltre, regalò ad Hester sei volumi rilegati in pelle, che divennero “Thraliana”, dei diari in cui la scrittrice raccolse avvenimenti privati, ma anche commenti ed osservazioni dei personaggi che frequentavano la sua tavola per il tè o la cena, e che servirono come base per gli aneddoti sulla vita di Samuel Johnson. Questi diari, e le “Osservazioni e riflessioni nate nel corso di un viaggio attraverso la Francia, l’Italia e la Germania”, costituiscono una vivace e sensibile narrativa, che non solo è piacevole da leggere, in quanto mette in luce usi, costumi e modi dell’ultimo trentennio del Settecento, ma risalta nel panorama letterario dell’epoca, come esempio di voce originale e tutta al femminile. Va da sé che Hester, durante il soggiorno italiano, non si limitò solo a fare acquisti e sedere per il ritratto della National Portrait Gallery, ma frequentò anche una cerchia di emigrati inglesi e radicali italiani, tra cui Ippolito Pindemonte, gravitando, per un certo periodo, nel gruppo di poeti sentimentali, fondato a Firenze da Robert Merry, i  cosiddetti “Della Cruscans”.

Per approfondimenti su questa scrittrice, consiglio il libro di Marianna D’Ezio (che è tratto dalla sua tesi di dottorato): “Hester Thrale Piozzi: a taste for eccentricity”, pubblicato da Cambridge Scholars nel 2011.

Piccola storia del tè

“La gente qui non manca di tè, caffè e cioccolato, soprattutto il primo, il cui uso è diffuso a tal punto, che non solo la nobiltà ed i ricchi commercianti lo bevono costantemente, ma quasi tutti hano il loro tè e se lo godono di prima mattina…”   
Charles Deering, ‘Nottinghamia Vetus et Nova’, 1751.

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Le bevande provenienti dalle americhe e dalle colonie influenzarono gli usi e costumi di inglesi ed europei. Il tè, menzionato per la prima volta nel 1559, si diffuse largamente nel Seicento, prima in Olanda ed in Francia, per poi approdare in Inghilterra, nel 1662, grazie a Caterina di Braganza, la moglie di re Carlo II.
Le coffee houses londinesi vendevano caffè, cacao, brandy, rum, ma anche tè. Nel 1657 Thomas Garraway, per pubblicizzare la vendita di tè nella sua rinomata ed elegante coffee house, aveva anche prodotto un volantino, che ne declamava le virtù, anche medicinali. Non tutti però erano d’accordo. Anzi, alcuni ritenevano il tè una bevanda pericolosa. Jonas Hanaway, nel suo saggio del 1757, descrisse questo infuso come corrosivo, emetico e fin troppo costoso. Dalle pagine del Literary Magazine, Samuel Johnson rispondeva  al violento attacco al tè di Hanaway, sostenendo invece che questa bevanda elegante e popolare fosse bevibile ad ogni ora, di sapore gradevole e di natura innocua. 
E’ innegabile che il tè in Gran Bretagna si diffuse lentamente, proprio a causa del costo elevato. Nel 1660, il diarista Samuel Pepys lo beveva come rimedio medicinale per combattere la tosse. Un secolo più tardi, il tè si vendeva nelle coffee houses londinesi per 2 sterline, cioè l’equivalente di un anno di paga di un mozzo, un anno di visite dal barbiere per un gentiluomo o un mese di lezioni private di danza per una signora. Dunque, seppur disponibile, il tè era un prodotto molto costoso, che solo pochi potevano permettersi. Il caffè rimaneva, al confronto, a buon mercato e proliferava nelle botteghe ad esso dedicate. Solo con l’aumento delle importazioni e la riduzione delle tasse, a partire dal 1730 in poi, il tè si diffuse maggiormente, fino ad essere incluso nella dieta delle classi medie, con una spesa media di 7 pence a settimana, assieme allo zucchero (quindi poco meno di una serata passata alla coffee house). A metà del Settecento, perfino le classi meno abbienti, potevano godersi un tè due volte a settimana. Nel 1784, come attesta La Rochefoucauld, il tè era la bevanda più diffusa in Gran Bretagna, e veniva consumato due volte al giorno, sia dai contadini che dai ricchi. Questo successo, che non si registra allo stesso modo in Francia o in Italia, bevitrici di caffè per tutto il XVIII secolo ed oltre, sicuramente fu determinato dalla tassa sul malto, che rendeva più costosa la birra, dall’abitudine degli inglesi a trangugiare bevande calde, come hot ales e punch, e, soprattutto, dall’impulso al commercio del tè determinato dalla East India Company, che ne deteneva il monopolio. Inoltre, le foglie del tè erano leggere da trasportare e semplici da preservare. Erano anche facili da introdurre come merce da contrabbando. Insomma, nel diciottesimo secolo, il tè eguagliò la birra come bevanda nazionale. E, a differenza degli orientali, lo si beveva con latte e zucchero, altro prodotto coloniale. 
Nel primo ventennio del Settecento, il caffè veniva bevuto in maggioranza da uomini ed era una bevanda energetica, che si accompagnava alle discussioni animate ed alla lettura dei giornali, in luoghi pubblici, adibiti alla vendita ed al consumo. Il tè, invece, veniva percepito come un prodotto più delicato e raffinato, adatto alle donne e ad un ambiente familiare e gentile, come le mura di casa o il giardino. La predilezione delle donne per questa bevanda determinò la fortuna di Thomas Twining.  Agli inizi del XVIII secolo, Thomas, che aveva alle spalle il mestiere di tessitore, stava cambiando carriera e si era messo a lavorare per un ricco mercante di tè della East India Company, Mr Thomas D’Aeth.  
Thomas Twining aveva intuito le possibilità offerte da questa bevanda esotica e, nel 1706, acquistò la Tom Coffee House a Strand, per aprire un negozio di tè. L’esercizio commerciale si trovava in posizione strategica tra la City e Westminster e riusciva ad attrarre le classi agiate in cerca di questa bevanda alla moda. Solo i ricchi potevano permettersi di acquistare il tè e le signore, a cui non era ammesso accedere ad ambienti maschili come le botteghe di caffè e il negozio di Thomas, restavano ad aspettare fuori, sedute in carrozza, mentre i loro valletti entravano a comprare le miscele più raffinate. Finalmente, nel 1784, il Commutation Act ridusse le tasse sul tè, rendendolo una bevanda popolare, alla portata di tutti. Nel 1837, la regina Vittoria nominò Twinings fornitore ufficiale della famiglia reale. Fu questa rinomata ditta ad introdurre la comoda bustina, nel 1956. Dopo 300 anni, potete ancora visitare lo storico negozio di Thomas Twining, al 216 di Strand. Una volta varcato l’ingresso, affiancato da colonne e sormontato da un frontone, da cui si stagliano le statue di un leone, e due cinesi, potrete acquistare tè ed infusi, ammirare un piccolo museo o degustare delle miscele interessanti al nuovo Loose Tea Bar.

 

Nei cortili di Fleet Street…

IMG_3575Ora che la primavera è tornata, è un piacere riprendere i miei vagabondaggi. In una calma domenica mattina me ne sono andata in giro con il naso per aria e una guida rossa Ward Lock & Co del 1925-1926 in tasca. La casa editrice Ward, Lock & Co ebbe inizialmente il suo quartier generale a Fleet Street e successivamente a Salisbury Square. Dopo che, nel dicembre del 1940, le bombe avevano distrutto la sede di Warwick House, l’azienda si trasferì a Chancery Lane e poi a Piccadilly. Alla ricerca di atmosfere nascoste, ho peregrinato per quello che, fino al 1980, era il famoso centro giornalistico di Londra. Oggi, Fleet Street racconta la storia della stampa e dell’editoria attraverso targhe sul marciapiede, cartelli fantasma e cimeli dimenticati. Ma il passato non sembra poi così remoto ogni volta che sfoglio la mia guida rossa. La maggior parte dei luoghi di interesse sopravvivono ancora oggi, nonostante la Seconda Guerra Mondiale, opere di riqualificazione urbana e traslochi. I piccoli vicoli immediatamente alle spalle del traffico e del rumore di Fleet Street sono una vera scoperta. Essi accolgono il viandante attraverso aperture strette e scure, sorprendendone i sensi con una sinfonia di vecchi mattoni, bianche cornici e modestia settecentesca. La prima tappa è a Crane Court. Questo vicolo sonnolento, vide le prime riunioni della Royal Society (1710-1780) e fu attraversato dalle menti illuminate di Joseph Banks, Hans Sloane e Benjamin Franklin, che si qui si dilettarono in vivaci dibattiti, contribuendo ai progressi scientifici. Anche il primo quotidiano britannico, il Daily Courant, vide la luce a questo indirizzo, nel 1702. Una caratteristica casa a schiera, con le pareti di mattoni rossi e le bianche finestre arretrate rispetto alla facciata, porta la firma di Nicholas Barbon, speculatore finanziario ed importante costruttore nella Londra del XVII secolo. Più avanti, Red Lion Court è un passaggio tranquillo a pochi passi da Fetter Lane. I suoi edifici in mattoni hanno assistito alla nascita del primo carattere tipografico sans-serif (William Caslon IV, 1816) e alla pubblicazione di periodici classici e traduzioni dal latino e dal greco ad opera di Abraham Valpy (1822 -1837). Seguendo i muri anneriti e poi girando a destra si può raggiungere Gough Square, dove, al n.17, sorge un raffinato esempio di casa di città della fine del XVII secolo. IMG_3580Fu in questo edificio, oggi un museo, che, tra il 1748 e il 1759, visse il dottor Samuel Johnson. La casa è un viaggio in se stessa e merita una visita, con i suoi pannelli scuri, le goffe scale, i manoscritti e i ritratti, le stampe e il servizio da tè, i divisori in legno e la grande soffitta, dove il famoso Dizionario vide la luce. Il dottor Johnson era un appassionato di Londra e della vita, di poesia e letteratura, ma anche del suo gatto, Hodge. James Boswell, biografo di Johnson, ci dice che quell grand’uomo “soleva uscire a comprare ostriche, per timore che i servi avessero qualche problema e dovessero prendere in antipatia la povera creatura”. IMG_3581Hodge è stato immortalato in una statua di bronzo, di fronte alla casa. “Un bel gatto davvero” seduto sul celebre Dizionario, con un paio di gusci di ostriche vuoti al lato. Il dottor Johnson e la sua cerchia probabilmente percorrevano la breve distanza da Gough Square a Wine Court Office, per bersi una pinta al Ye Olde Cheshire Cheese, una taverna costruita nel 1667, immediatamente dopo il grande incendio di Londra. Il pub resta in piedi ancora oggi ed è assai caratteristico, per gli interni cupi e pittoreschi, frequentati nel tempo da avventori del calibro di Charles Dickens e Arthur Conan Doyle. Un’altro personaggio la cui memoria si lega al locale, fu Polly, un pappagallo grigio. Il pennuto, all’inizio del secolo scorso, era celebre per le battute insolenti e l’impareggiabile imitazione dell’esplodere di tappi di bottiglia. Morì quarantenne di polmonite, nel 1926, anno in cui la mia guida rossa usciva in libreria. E il cerchio si chiude.