Il cibo e l’arte e il nuovo decennio…

Finisce un anno e ne comincia un altro e io mi sento come Giano bifronte, che guarda in due direzioni, molto diverse, e si sente ancora immerso nel decennio appena concluso, mentre una faccia è già orientata al futuro.
Del resto, la pausa natalizio-mangereccia non del tutto passata, ha radici molto antiche, precristiane. Dai Saturnalia ai riti propiziatori delle culture agricole del mondo antico.
Il tempo per quegli uomini aveva un andamento ciclico, di morte e rinascita, e seguiva il percorso del sole, le stagioni e le fasi lunari. Questa fine-inizio, con le sue implicazioni profonde, arriva fino a noi, menti moderne, a creare un po’ di ansia e aspettativa.
Allora, io vi propongo un doppio appuntamento con il passato, tra Italia e UK, per esplorare il rapporto dell’uomo con il cibo, le abitudini sociali e la ritualità.
A Roma, la mostra Pompei e Santorini – L’eternità in un giorno (fino al 6 gennaio), presenta oltre trecento oggetti, e ripercorre un arco di tempo che va dall’età del bronzo ai nostri giorni, attraverso il Mediterraneo.
A Oxford, Last Supper in Pompeii (fino al 12 gennaio) mostra un analogo numero di reperti, tra cui utensili da cucina, mosaici e resti di cibo, ed esamina il rapporto degli antichi romani (da Pompei a Londinium) con il cibo e l’agricoltura
Comune denominatore delle narrazioni è la catastrofe, che, tacita, incombe e muta il corso delle società umane.
scheletro carpe diemGli antichi Romani non avevano timore di evocare la morte, che, anzi, era un modo per ricordarsi di godere del momento e dei suoi piaceri terreni.
La filosofia epicurea del carpe diem ha sicuramente ispirato i padroni della Casa delle Vestali ad adornare il pavimento della sala da pranzo con uno scheletro coppiere (in prestito ad Oxford dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e farne così uno strano, quanto umoristico, fulcro dei loro banchetti, le cui tavole erano allietate da pietanze e bevande servite in magnifici servizi d’argento.
Pompei era rinomata per la sua produzione di argenteria.
Tazze d’argento dorate, decorate con la tecnica del repoussé, abbellite da rilievi di piante sacre (olivo, vite e mirto) sono in mostra all’Ashmolean Museum. Alle Scuderie del Quirinale, invece, si può ammirare il magnifico servizio da tavola rinvenuto a Moregine, che include sia l’argento da portata (escarium) che quello per i liquidi (potorium).
Mangiare, bere e produrre cibo erano attività consuete anche ad Akrotiri, nell’isola di Santorini.
L’antica città fu distrutta da un’eruzione vulcanica nel secondo millennio a.C., ma è probabile che la popolazione sia riuscita a mettersi in salvo e portare con sé gioielli e oggetti preziosi.
Restano, tuttavia, tazze e vasellame di terracotta di estrema vivacità e bellezza, decorate con motivi geometrici a spirale o elementi naturalistici ispirati all’ambiente dell’isola, come delfini, uccelli, bovini, fiori di croco, racemi, conchiglie.
vaso croco da akrotiriLa natura, incontaminata o modellata dall’uomo, era un elemento importante.
Si stima che un terzo delle case pompeiane disponesse di un giardino privato.
Lo spazio poteva avere funzione utilitaria, ad esempio per coltivare ortaggi o erbe medicinali, ma serviva anche come estensione della casa, per mangiare, socializzare o purificarsi.
I cittadini più ricchi potevano installare fontane ornamentali, decorate con mosaici e statue.
A Oxford si può ammirare un pescatore di bronzo, proveniente dalla Casa della Piccola Fontana; a Roma, il bel ninfeo della Casa del Bracciale d’Oro, rivestito da mosaici policromi in pasta vitrea, conchiglie e schiuma di lava.
La Casa del Bracciale d’Oro era una delle abitazioni più lussuose di Pompei. Qui, i banchetti estivi avvenivano in un triclinio aperto sul giardino, di cui il ninfeo costituiva il fulcro.
affresco giardino pompeiQuesta sala di rappresentanza era abbellita con le più accurate scene di giardino di III stile (anch’esse esposte a Roma), così realistiche da consentire il riconoscimento di diverse specie di piante e uccelli dell’epoca.
Dimore affrescate esistevano anche nell’antica Akrotiri, da cui provengono meravigliose e suggestive immagini.
La Casa Occidentale era decorata con storie di viaggi per mare, giovani pescatori e bellissime sacerdotesse occupate in rituali misteriosi.
Tra l’Egeo e il Tirreno predominava infine quella dieta mediterranea consumata ancora oggi, fatta in maggioranza di olive, noci, grano e legumi, frutta, pesce e molluschi. Ce la testimoniano resti di conchiglie, olio solidificato nel suo vaso di vetro, pani e fichi carbonizzati, anfore per il garum e per i datteri, modelli di dolci e melograni.
Sia la mostra di Oxford che quella di Roma guardano oltre l’orrore dell’improvvisa distruzione, per celebrare l’esistenza degli abitanti di Akrotiri e Pompei.
Il banchetto, per gli antichi come per noi, è l’epitome della vita (degli amici, della famiglia, dei contatti di lavoro).
Una festa che ci conduce, ebbri e sazi, alla fine e all’inizio di tutte le cose, all’avvio di una nuova gestazione.

“Elle est retrovèe/Quoi? L’eternité”

Pappagalli a Londra

Edward Lear green parrot

Edward Lear, “Palaeornis Torquatus”, 1831 (MS Typ 55.9). Houghton Library, Harvard University

La popolazione di pappagallini, che, da sempre, colora i quartieri di Londra, è molto aumentata. Una colonia di parrocchetti dal collare (psittacula krameri) si è installata anche in questa zona, così, la mattina, al noto concerto in giardino di corvi, pettirossi, passeri, piccioni di bosco e gazze ladre, si aggiungono le acute strida di questi esemplari esotici, perfettamente acclimatati. Ma come sono arrivati i pappagallini a Londra? Molto probabilmente saranno fuggiti da qualche gabbia o negozio di animali, tuttavia, la leggenda metropolitana, vuole che siano scappati da un container, agli Isleworth Studios, nel 1951, durante le riprese del noto film “The African Queen”, con Humphrey Bogart and Katharine Hepburn. I parrocchetti sono ora talmente tanti, da essere stati ufficialmente dichiarati animali nocivi, alla stregua di volpi e scoiattoli. In questi giorni, oltre al bird watching metropolitano, si può indulgere nelle bellissime pagine illustrate da Edward Lear, di cui, quest’anno, ricorre il bicentenario della nascita. Famoso per la sua poesia nonsense e i disegni umoristici, Lear fu anche un valente pittore botanico, naturalistico e di paesaggio. La sua prima fatica fu proprio quella di ritrarre i pappagalli esposti nello zoo di Londra. Iniziò nel 1830, appena diciottenne, e, dalle gabbie dello zoo, passò ben presto alle voliere delle collezioni private, come quella di Lord Stanley a Knowsley Hall, e agli esemplari impagliati dal tassidermista John Gould. Di quegli anni di ricerche e frenetico lavoro, restano, non solo numerosi schizzi preparatori (oggi nella Houghton Library, ad Harvard), ma anche le caricature dei visitatori che lo importunavano al giardino zoologico. Il celebre tomo in grande formato, del 1832, dal titolo “llustrations of the Family of the Psittacidae, or Parrots”, contiene ben 42 illustrazioni litografiche. Di quest’opera sopravvivono solo 100 esemplari, che a Londra sono consultabili nelle biblioteche della Linnean Society e del Natural History Museum. Alla Royal Society,  si è ancora in tempo per visitare la mostra su Lear illustratore scientifico, mentre, l’Ashmolean Museum di Oxford, ha appena inaugurato una retrospettiva sull’artista, che rimarrà aperta fino al 6 gennaio 2012, e comprende opere mai esposte prima, tra cui tavole ornitologiche, schizzi di paesaggi, caricature surreali e versi.