Scrivere un blog nel 2019

haunsensoscrivereblog?L’estate a Londra rappresenta per me una pausa di riflessione. Lontana, ormai, nel tempo, la sua lunga versione italiana, col solleone, la calura, il sudore e la crema solare, il mare, con il tormentone fino alla nausea e le file del rientro, le cicale chiassose, i pomeriggi sonnecchianti, le punture di zanzara, i film all’aperto…
Ormai le parentesi mediterranee sono diventate brevi scampoli, passati un po’ a fare i turisti, un po’ a riappropriarsi del passato, ravvivato da fugaci riunioni con gli amici di sempre, che, mentre le vivo, mi sembro Philippe Noiret alias Perozzi, in vena di reminiscenze. Poi ci sono luglio e agosto a Londra, che si svuota in parte della consueta fauna dinamica e nervosa, per riempirsi di turisti confusionari e distratti.
Anche l’estate londinese ha i suoi corsi e ricorsi: la spiaggia prefabbricata sul Tamigi, le sdraio a Hyde Park, i drink in terrazza, l’odore di barbecue, le finali di Wimbledon, i Proms e Shakespeare all’aperto, con l’acquazzone che ti guasta l’atmosfera.
Ogni estate, per sopravvivere all’estate, intraprendo qualche progetto intellettuale, personale e solitario. Cerco di riparare la mia bussola interiore, per darmi nuovi impulsi e direzioni, provando a lasciar cadere le cattive abitudini. Ritaglio spazi, complice qualche ora di luce in più, qualche impegno in meno. 

Mi sono accorta che tanti miei link corrispondevano ormai a domini in vendita, server irraggiungibili o pagine ferme a più di un anno fa. Molti blog sono caduti in disuso, perché la gente in questi giorni ha meno tempo o voglia di scrivere e si diverte di più su Facebook o Twitter. E’ cambiato anche il modo di utilizzare queste piattaforme, perché sui social media si interagisce prima e basta una foto. Molti blog odierni sono divenuti siti personali col punto com o spazi commerciali, per chi ancora ha voglia di impegnarsi in una strategia di web marketing dai risultati a lungo termine. Quello che mi piaceva della comunità di bloggers di una decade fa era l’uso aggraziato dei commenti, la possibilità di confronto e conoscenza. In parte questo sopravvive anche oggi, sebbene la maggior parte dei commenti sia finita sui social, e i toni di chi interagisce non sempre siano caratterizzati da pacatezza e cognizione di causa.  Molti blog, tipo questo, hanno visto la luce su piattaforme gratuite o domini di secondo livello, e il nome del dominio non sempre si è rivelato strategico (il mio è praticamente l’indirizzo di casa). Chi pensava al marketing? Credo pochi o nessuno di quelli che hanno aperto un blog oltre dieci anni fa, avessero un’idea editoriale, delle strategie, la consapevolezza di dove sarebbero andati a finire in un lustro o due. Anche chi ha cominciato con le idee ben chiare, si è aperto una pagina Facebook, perché con due foto, tre righe di contenuto e vari hashtags si ottiene un risultato immediato.
Ci vuole dedizione, attenzione e affetto per curare una micro nicchia, che sia un blog o un sito – contenitore ad hoc. E, comunque, più tempo di un post sul social di turno. Senza l’engagement di una volta, senza nemmeno una strategia di marketing, svanisce l’entusiasmo e la pagina resta ferma a galleggiare, come un messaggio in bottiglia alla deriva nel mare del 3.0. 

Questo spazio mi definisce, nel bene, nel male e nei suoi limiti.
Ci posso scrivere quello che voglio, quando voglio. Non sono schiava del calendario editoriale, non devo scendere a compromessi. Non ci faccio soldi, non influenzo nessuno. Quei pochi seguaci, qualche volta li lascio in attesa per un mese o due, perché, come recita l’adagio, “questo blog non rappresenta una testata giornalistica, in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità.”
Dunque, non un prodotto editoriale, ma una mera estensione del mio mondo, che, nonostante recessioni, Brexit, dilemmi e problematiche varie, cerco ancora di riempire con mostre da visitare, eventi curiosi a cui partecipare, effimere bellezze da cogliere al volo e flaneries spensierate, perché il viaggio è più importante della destinazione. 

Pappagalli a Londra

Edward Lear green parrot

Edward Lear, “Palaeornis Torquatus”, 1831 (MS Typ 55.9). Houghton Library, Harvard University

La popolazione di pappagallini, che, da sempre, colora i quartieri di Londra, è molto aumentata. Una colonia di parrocchetti dal collare (psittacula krameri) si è installata anche in questa zona, così, la mattina, al noto concerto in giardino di corvi, pettirossi, passeri, piccioni di bosco e gazze ladre, si aggiungono le acute strida di questi esemplari esotici, perfettamente acclimatati. Ma come sono arrivati i pappagallini a Londra? Molto probabilmente saranno fuggiti da qualche gabbia o negozio di animali, tuttavia, la leggenda metropolitana, vuole che siano scappati da un container, agli Isleworth Studios, nel 1951, durante le riprese del noto film “The African Queen”, con Humphrey Bogart and Katharine Hepburn. I parrocchetti sono ora talmente tanti, da essere stati ufficialmente dichiarati animali nocivi, alla stregua di volpi e scoiattoli. In questi giorni, oltre al bird watching metropolitano, si può indulgere nelle bellissime pagine illustrate da Edward Lear, di cui, quest’anno, ricorre il bicentenario della nascita. Famoso per la sua poesia nonsense e i disegni umoristici, Lear fu anche un valente pittore botanico, naturalistico e di paesaggio. La sua prima fatica fu proprio quella di ritrarre i pappagalli esposti nello zoo di Londra. Iniziò nel 1830, appena diciottenne, e, dalle gabbie dello zoo, passò ben presto alle voliere delle collezioni private, come quella di Lord Stanley a Knowsley Hall, e agli esemplari impagliati dal tassidermista John Gould. Di quegli anni di ricerche e frenetico lavoro, restano, non solo numerosi schizzi preparatori (oggi nella Houghton Library, ad Harvard), ma anche le caricature dei visitatori che lo importunavano al giardino zoologico. Il celebre tomo in grande formato, del 1832, dal titolo “llustrations of the Family of the Psittacidae, or Parrots”, contiene ben 42 illustrazioni litografiche. Di quest’opera sopravvivono solo 100 esemplari, che a Londra sono consultabili nelle biblioteche della Linnean Society e del Natural History Museum. Alla Royal Society,  si è ancora in tempo per visitare la mostra su Lear illustratore scientifico, mentre, l’Ashmolean Museum di Oxford, ha appena inaugurato una retrospettiva sull’artista, che rimarrà aperta fino al 6 gennaio 2012, e comprende opere mai esposte prima, tra cui tavole ornitologiche, schizzi di paesaggi, caricature surreali e versi.