I 50 anni di Sgt. Pepper’s

Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario dall’uscita dell’album dei BeatlesSgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, concepito nel 1966 e uscito nei negozi il 1º giugno 1967. Fu un disco rivoluzionario, per tanti motivi. Innanzitutto nasceva come un concept album che raccoglieva stralci di ricordi dei Beatles nella Liverpool della loro adolescenza. Inoltre, all’organico della band, si aggiungeva la presenza di un’orchestra e di una banda di ottoni, di sapore vittoriano.
I pezzi furono incisi con dei nuovissimi registratori multitraccia. E anche la confezione fu pensata con cura, commissionando l’immagine di copertina a Peter Blake, artista inglese esponente della Pop Art.
L’album è stato acclamato come uno dei migliori di tutti i tempi dalla rivista Rolling Stone ed è considerato come il vero, primo album “art rock”. Per rendere omaggio al 50 ° anniversario di questo disco, la città di Liverpool ospiterà “Sgt Pepper at 50”, un festival unico nel suo genere, che riunirà artisti di fama mondiale e talenti locali. Il nutrito programma, che prevede 13 eventi (lo stesso numero delle canzoni dell’album), si svolgerà dal 25 maggio al 16 giugno, mettendo in scena concerti e spettacoli teatrali, installazioni d’arte e performances.
Tra le varie proposte, si segnalano: “With a Little Help From My Friends”, due commissioni di arte pubblica sul tema dell’amicizia, a cura di Jeremy Deller; un festival di luci dal titolo “Suspended Time”, realizzato dal team francese GroupeF ed ispirato al brano “Lucy in the Sky with Diamonds” e la canzone “When I am 64” eseguita da un coro di 64 elementi, di tutte le età, che sarà trasmessa in diretta su BBC Radio Merseyside.

Per informazioni, e prenotazione dei biglietti, potete consultare il sito internet della manifestazione e l’account twitter @itsliverpool

J&MC

and the way you are

sends the shivers to my head



you’re going to fall you’re going to fall down dead… 

I Jesus & Mary Chain debuttarono poco più che ragazzini, nel 1985, con un disco rivelazione, PSYCHOCANDY, il quale conteneva la famosa Just Like Honey e vari altri brani pieni di distorsioni e molesti feedback. Quell’album fu acclamato dalla critica e ricordo una similitudine che recitava pressapoco così “una maestosa fortezza di rumore, che una volta scalata conduce a panorami di insolita bellezza”. Fu subito amore, io teenager ribelle, e loro, bambini scozzesi che giocavano a fare i maledetti, con le loro facce imbronciate sotto una difensiva massa di capelli scompigliati e le guance tenere, ancora segnate da foruncoli adolescenziali. Nei dischi che seguirono, i muri della fortezza di rumore si andarono via via abbassando, mentre dal vivo i fratelli Reid e Bobby Gillespie, che poi avrebbe fondato i Primal Scream, non si prodigavano altrettanto. Tra la furia della loro acerba sfrontatezza e i fumi di alcool e additivi, le performances erano caratterizzate da rumore, brevità e risse sul palco. Tuttavia io non ebbi mai la chance di assistere a questi eventi, perché l’unica data italiana, me lo ricordo ancora, fu a fine agosto 1987, ad Umbertide, ridente cittadina umbra, a 200 km da Roma. Insomma, per farla breve, sono passate due decadi da quell’estate e tante cose sono cambiate. I ragazzini delle foto in bianco e nero si sono fatti adulti, con qualche ruga, meno capelli e una famiglia da mantenere. Però, anche se le intemperanze di gioventù sono un capitolo chiuso, non hanno perso la grinta, e nemmeno i fans, le cui fila si sono accresciute di nuove leve.
E’ bastato dunque collocarsi a debita distanza dal palco, quanto bastava per non mettere a fuoco i segni del tempo, e il 1987 non m’è sembrato più così lontano…

Down came the rain, but nothing will change…

killing moon

La parentesi romana si è conclusa… anche l’estate. Qui in terra angla si respira l’odore dell’autunno e fa anche un pò freddino. E il sole è un optional. Si parlava ieri delle strane sensazioni a fior di pelle, una vacanza come tante che l’hanno preceduta, da cui non ci si aspettava nulla o quasi, e che però ci ha cambiato. Possono essere stati paesaggi montani di purezza sorprendente o uno scenario barocco da riscoprire, semplicemente, camminandoci dentro; la rivelazione è avvenuta in sordina, come la goccia che scava la roccia, attraverso il ritmo lento dei passi, la gamma di colori dimenticati, il sole che accarezza la pelle e il viaggio nella solitudine che si fa presenza, di noi stessi. E poi si torna a Londra, alla vita frenetica, al clima incerto da recessione, ai pendolari che corrono senza posa tra lavori che saltano, alla quotidianità stravolta, fatta di facce e ritmi che dovrebbero essere gli stessi di dieci giorni fa, ma in fondo al cuore sai che non è così. E, tuttavia, la sola cosa da fare è tuffarsi in questo mondo asincrono, coglierne le opportunità cercando di non farsi prendere da quella frenesia malata, anche se è un proposito destinato al fallimento. 
L’unica cosa che conta è restare fedeli a se stessi, pur nei cambiamenti e nelle evoluzioni.
Così mi sono ritrovata a filosofeggiare, tra una pausa e l’altra del concerto dei Bunnymen alla Royal Albert Hall. Sul tempo che passa, sui prodotti musicali che oggi si divorano in un nanosecondo, mentre ieri un album durava si e no 45 minuti e lo ascoltavi attentamente, lo metabolizzavi consumandone i solchi. Ho visto scorrere bellissime immagini in bianco e nero di una gioventù piena di promesse, e sul palco quello che rimane di un ventennio di tempeste e battaglie. 
Sarà che io i concerti rock seduta in piccionaia proprio non riesco a concepirli… però so che se fossi stata sotto al palco, testimone del decadimento della gioventù di cui sopra, mi sarei sentita peggio. 
"Evergreen…"
 
 bunnymen

Cold Wind

brmc

Fa freddino nella notte londinese, ma nulla passa attraverso il giubbotto di pelle e il berretto di lana. Un’impercettibile ronzio nelle orecchie, voglia di raccontare qui, prima che le impressioni si perdano. Sono reduce dal concerto dei Black Rebel Motorcycle Club alla Roundhouse ed è stata una bella performance, superiore alle mie aspettative e protrattasi per oltre due ore.Più di un centinaio di minuti elettrizzanti, l’acustica tagliente e la coreografia scarna, lo shoegazing e i giri di basso sporchi, da cantina. Qua e là suggestioni che ricordano i Jesus & Mary Chain, sebbene più rock’n’roll…ma in fondo, che male c’è?Tra un brano e l’altro mi sono soffermata a guardare l’architettura particolarissima della Roundhouse, con le 24 colonne di ferro e gli archetti svettanti a sostenere il tetto rotondo, un capolavoro dell’ingegneria civile vittoriana. L’edificio ne ha viste delle belle in 161 anni di storia. Utilizzato in origine come rimessa per locomotive, nel 1869 divenne un deposito di gin, per la ditta W S Gilbey. Successivamente, verso il 1940, cadde in disuso e infatti, quando Geoffrey Fletcher ne scrisse, nel 1962, nel libro "The London Knobody Knows", la Roundhouse era ormai un vuoto scheletro, malinconica testimonianza dei fasti delle ferrovie fin de siècle. Tuttavia, sul finire degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta, lo spazio venne reimpiegato come sala da concerti e laboratorio artistico. Vi suonarono Otis Redding, Jimi Hendrix, i Doors, i Led Zeppelin e i Pink Floyd. Vi furono rappresentate tragedie di Shakespeare e opere liriche, vi lavorarono anche Julien Beck con il Living Theatre e attori del calibro di Vanessa Redgrave ed Helen Mirren. Dopo oltre due decenni di decadenza e abbandono, nonché numerosi tentativi di acquisto e restauro mai concretizzati, finalmente l’edificio è stato ristrutturato e convertito in centro multiculturale. Un esperimento felicemente riuscito.Mentre i B.R.M.C. si esibivano in schitarramenti e distorsioni amplificate, pensavo a tutto quello che è passato sotto al tetto conico della Roundhouse, dalle locomotive ai barili di gin, dai figli dei fiori agli amanti del teatro, e mi sembrava di vedere emergere dalla nebbia quegli ingegneri vittoriani, col cilindro e i basettoni, e quegli operai accaldati nelle fonderie del nord, intenti a forgiare colonnine e volute, tutti fieri di far parte della rivoluzione industriale e del progresso. 

roundhouse