And So To Bed

Samuel Pepys CoronavirusNon so bene cosa dire di questo 2020.

Il tempo atmosferico è alquanto anomalo, con primavera nettamente anticipata (il viali di SE4 sono tutti in fiore). Al tempo stesso, ho perso il conto di quante tempeste con nomi astrusi ho avuto a che fare nelle ultime settimane. Pioggia, vento e ombrelli rotti.

E poi c’è un virus nuovo, CODIV 19, che viene dalla Cina e terrorizza l’Europa. 

Abbiamo avuto il primo caso ufficiale londinese proprio qui vicino. La paziente non è rimasta a casa, non ha telefonato al numero 111, ma ha chiamato un Uber e si è fatta portare al pronto soccorso! 

C’è stato anche un “super-untore” (o super-diffusore, come lo etichettano gli italiani), sopravvissuto al virus, che lo ha sparpagliato, ignaro, qua e là, anche nelle alpi francesi, fino a Maiorca. La sua faccia è finita in prima pagina: unica colpa, quella di essere andato ad una conferenza a Singapore ed essere tornato in patria con nuove idee ed il contagio.

In questi momenti di panico, paranoia e ansia collettiva, mi vengono in mente le pagine del diario di Samuel Pepys, che, nel 1665, scriveva:

Da qualche giorno non andavo in città, che è deserta, e tutti quelli che si incontrano hanno l’aria di essersi già congedati dalla vita. Penso di dare un addio, oggi, alle strade di Londra… Però, che viso travolto hanno tutte le persone che si incontrano per la strada! E tutti parlano di peste e di morte e tutta la città sembra abbandonata.”

Ai tempi di Pepys, la globalizzazione era agli albori, le condizioni igienico-sanitarie pessime, e Londra era ancora un agglomerato labirintico di vicoli malsani ed edifici vetusti, per lo più di legno.
Chi aveva i soldi, si spostava via fiume, e, in caso di epidemie, si rifugiava in campagna. Gli altri, potevano solo affidarsi alla Provvidenza, come gli sposi di Manzoniana memoria.
Il nostro eroe non girava per Londra coi flaconi di gel disinfettante in tasca, ma si preoccupava della dubbia provenienza di certi prodotti:

“Mi sono alzato presto, per indossare il mio abito nuovo di seta colorata. Ho anche messo la parrucca nuova, che ho già da tempo, ma che non osavo mettere perché a Westminster c’era la peste quando l’ho comprata. Chi sa che specie di moda vi sarà quando l’epidemia sarà finita. Nessuno vorrà portare parrucche per paura dell’infezione, perché i capelli potrebbero essere stati tagliati dalle teste degli appestati.”

Tra i vari rimedi improvvisati per far fronte al morbo e alla paura, si ammazzavano i gatti, ignorando che la peste fosse arrivata via mare con i topi e le pulci, assieme alle merci più in voga.
In seguito, dopo l’epidemia, nel 1666 arrivò il fuoco: un Grande Incendio che distrusse i quattro quinti della città, in meno di cinque giorni. Causato da una scintilla scappata da un forno, poi propagatosi velocemente, a causa di un vento molto forte. Alimentato da legno, pece e case ammassate l’una sull’altra, l’Incendio divenne quasi subito l’incarnazione di tutte le paure. Quella di Dio, che puniva gli uomini per l’ingordigia ed i peccati, togliendo loro, non tanto la vita, ma il sostentamento e un tetto e gli affari. Anche la paura del diverso, dell’altro da sé, trovò nuovo slancio e si finì per accusare gli “alieni”, cioè gli stranieri (per la maggior parte immigrati europei, soprattutto francesi) ed i cattolici, di aver ordito un complotto ai danni della comunità e di aver appiccato il fuoco di proposito.

La teoria dei corsi e ricorsi storici ha un certo fondamento, anche se, lo svolgimento della storia, ha più un andamento elicoidale che circolare, quindi simile non significa necessariamente uguale. Ergo, nonostante le similitudini, specialmente in questi momenti di isteria collettiva, non siamo nell’Inghilterra del 1665 né nella Milano del 1630 né tantomeno nella Firenze del 1348.
Però siamo umani, e la Storia è maestra di vita.
Solo conoscenza, cultura e senso critico possono aiutarci a districarci lungo il percorso.

Mentre mi lavo le mani e disinfetto lo smartphone, pensando ai casi miei, continuo, volente o nolente, la mia vita, come faceva il buon Samuel Pepys.
Sono certa che, a
nche lui, avrà avuto paura della malattia, della sventura e della morte, mentre seppelliva una forma di parmigiano in giardino, per salvarla dalla distruzione del fuoco, e continuava ad andare in ufficio o su e giù per la città, suonando la tiorba alla sera, bevendo con gli amici, passando notti insonni con le coliche, tastando occasionalmente il didietro della cameriera o il décolleté dell’attrice di teatro, per poi farsi perdonare dalla moglie.

Quanto alla peste:

Per conto mio non ho mai vissuto più allegramente e non ho mai guadagnato tanto denaro come in questo tempo di epidemia, in compagnia del capitano Cocke. Soltanto la mia vecchia zia Bell
e dei figlioli da parte di mia cugina Sarah sono morti di peste, il resto della mia famiglia vive tutta in buona salute. La città, con nostra grande gioia, si va ripopolando giorno per giorno e i negozi si riaprono. Dio voglia che l’epidemia termini al più presto, perché ha tenuto finora lontano la Corte dal lavoro e tutto va come può
.”

La Londra di Samuel Pepys

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Il Seicento fu un secolo turbolento per l’Inghilterra. Tra la Guerra Civile, il regicidio di Carlo I (1649), la Repubblica di Cromwell, il ritorno di Carlo II dall’esilio in Olanda (1660), le dispute sulla successione sfociate nella Gloriosa Rivoluzione e l’ordine ristabilito nel 1689, si vennero a creare importanti sviluppi costituzionali e le premesse per un Paese moderno, democratico e protestante. Oltre a questi rivolgimenti politici, Londra fu vittima di due eventi devastanti: la Grande Peste del 1665 e il Grande Incendio del 1666. La prima, decimò quasi un quinto della popolazione, il secondo distrusse i due terzi della città, inclusa la cattedrale di St. Paul. Il Seicento, fu anche l’epoca in cui, tra gli scrittori famosi, oltre a poeti e commediografi, si possono annoverare prosatori come filosofi e diaristi, promotori di un linguaggio chiaro e razionale, desunto dalla scienza. Tra i diaristi, assai numerosi nel XVII secolo, sono due quelli che hanno narrato, inframezzati alle loro vicende personali e di vita quotidiana, fatti salienti dal punto di vista storico: John Evelyn, uno dei fondatori della Royal Society, e Samuel Pepys, politico e funzionario navale. Sebbene entrambi abbiano raccontato della Peste e del Grande Incendio, il diario di Pepys, ha superato per fama quello suo contemporaneo, responsabile di un lavoro più sobrio, e, in gran parte meno, personale. Per dieci anni, dal 1660 al 1669, Pepys scrisse sulla sua vita in gran dettaglio, e, inevitabilmente, finì per dipingere un ritratto della sua città e un memoriale della Restaurazione. Il diario contiene vivaci descrizioni di come la Peste e il Grande Incendio avessero devastato Londra, ma è anche strapieno di dettagli sugli spostamenti quotidiani di Pepys, che mostra sempre grande interesse e curiosità per tutto ciò che accade intorno a lui.  Figlio di un sarto, Samuel Pepys era adolescente quando il re Carlo I fu decapitato, e, appena ventisettenne, quando si trovava a bordo, assieme a suo cugino, Edward Montagu, della nave che riportava Carlo II in Inghilterra. Nel suo ruolo di funzionario navale e segretario dell’ammiragliato di Sua Maestà, ebbe accesso a corte e nei circoli politici più influenti in città. Pepys dovette la sua carriera, così come la sua istruzione, al talento e al duro lavoro.  Appassionato bibliofilo (alla sua morte lasciò una vastissima raccolta di volumi), musicista e cantante dilettante (suonava diversi strumenti, esibendosi in casa, in taverne e coffee houses e persino a Westminster Abbey), si interessò anche di astronomia e scienza, acquistando via via strumenti ottici e matematici. Quello che del diario di Mister Pepys attrae ancora oggi il lettore moderno è il fatto che in esso si mescolino mirabilmente e con sottile ironia affari di stato e dettagli domestici. Pepys scrisse praticamente di tutto, dalla vita a Corte alle sue scappatelle con le attrici di teatro, dallo stato delle finanze personali all’acquisto di un nuovissimo orologio dotato di sveglia, dalle serate con gli amici, rallegrate da vino e musica, ai battibecchi con la moglie e al gatto che lo teneva sveglio all’una del mattino. Forse, uno degli episodi più celebri, è quello che, il 5 settembre 1666, vede il protagonista scavare una buca in giardino, per mettere in salvo dal Grande Incendio documenti e una forma di prezioso parmigiano (!). Pepys spesso conclude la sua scrittura per la giornata con la frase “And so to bed” (e così a letto), che a volte si usa oggi in modo umoristico. Il diario si interrompe, dopo un decennio ed oltre tremila pagine, nel 1669, quando l’autore, preoccupato di perdere irrimediabilmente la vista, decide di smettere di scrivere a lume di candela, non ritenendo peraltro opportuno affidarsi alla dettatura di contenuti così personali. Vivrà ancora altri trentaquattro anni, senza divenire cieco e senza riprendere a scrivere le sue memorie. Il diario, redatto in una forma di stenografia, nota all’epoca, resterà nascosto tra i volumi della biblioteca di Pepys fino a quando, nel 1825, il reverendo John Smith riuscirà a dare alle stampe una traduzione, costatagli tre anni di duro lavoro (essendo ignaro che, la chiave di decodifica del sistema stenografico, era stata lasciata da Pepys in uno dei suoi volumi). La versione completa dell’opera fu pubblicata solo nel 1970, da Bell & Hyman. Infatti, le pubblicazioni vittoriane erano scevre dai passaggi più scandalosi, quelli che includevano le relazioni extraconiugali di Pepys e i dettagli più piccanti delle sue avventure, che il diarista annotava con cautela, mescolando all’inglese, parole in francese e italiano.
Da oggi, una mostra su Samuel Pepys al National Maritime Museum cerca di restituirci una visione ampliata del personaggio e della sua epoca, al di là delle vibranti pagine del diario. Si potranno ammirare gli strumenti musicali di cui Pepys amava servirsi (scoprendo ad esempio com’è fatta una tiorba), i ferri chirurgici che un dottore, come Thomas Hollier, avrebbe usato per operare Samuel di dolorosissimi calcoli alla vescica (e senza anestesia), i ben noti registri parrocchiali che elencavano, tra teschi e ossa incrociate, il triste record dei morti di peste, un’evocazione audio-visiva dell’incendio del 1666, i telescopi che aiutavano a guardare lontano, nonché uno dei più famosi ritratti del diarista, dipinto da John Hayls, seguace di Van Dyck. Pepys cominciò a sedere per questo ritratto il 17 marzo del 1666. Lo scrittore quasi si ruppe il collo, costretto com’era a guardarsi sopra le spalle, per mantenere una postura adatta ad ottenere un quadro pieno di ombre, così come dettava la moda del tempo. In mano, il diarista tiene una lirica di Sir William Davenant, “Beauty Retire”, musicata da egli stesso, di cui un esempio si può anche ascoltare qui.

“Samuel Pepys: Plague, Fire, Revolution” è al National Maritime Museum fino al 28 marzo 2016. Alla mostra si accompagna un fitto programma di conferenze, visite guidate e anche una serata con musiche e danze seicentesche, degustazioni di rum e letture dal celebre diario.

Inoltre:

Il diario di Samuel Pepys si può consultare online, in formato weblog;

Una versione italiana del diario è stata pubblicata recentemente, anche in formato ebook, da Castelvecchi editore;

Da gennaio 2016, una speciale Instawalk, anche in italiano, guiderà i partecipanti alla scoperta dei luoghi di Samuel Pepys, permettendo loro di rivivere il passato e sperimentare nuovi approcci di fotografia mobile.
Info: citywalkslondon@gmail.com.

Una mostra sulla Grande Peste di Londra

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Tra i vari centenari che cadono quest’anno, a Londra si ricordano anche i 350 anni dalla terribile epidemia di peste, che funestò la città nel 1665. La pestilenza, nota come the Great Plague, fu l’ultima grande epidemia di peste bubbonica ed uccise, in modo rapido e doloroso, circa 100.000 persone, quasi un quarto della popolazione londinese. Alla Guildhall Library, una mostra interessante, mette a disposizione del visitatore svariati documenti e volumi, tra cui i Bills of Mortality, le statistiche di mortalità settimanale di Londra, che servivano a monitorare le sepolture e, dal 161, venivano redatte dalla Worshipful Company of Parish Clerks, la corporazione degli impiegati parrocchiali. La City di Londra non era stata certo immune da episodi di peste, che ricorsero più volte tra la fine del XIV e la prima metà del XVII secolo. Infatti, c’erano stati ben 15 mini epidemie, di cui l’ultima, nel 1625, aveva causato parecchi morti. Tuttavia, la peste del 1665, causata dal batterio Yersinia pestis, ebbe effetti devastanti, anche sull’economia cittadina. Il morbo si diffuse velocemente nei quartieri più poveri di Londra, uccidendo, tra maggio e agosto, il 15% della popolazione. La parrocchia di St. Giles Cripplegate fu una delle aree maggiormente colpite. Chi ne aveva le possibilità, fuggiva dalla città, a piedi, cavallo o via fiume, in cerca di aree più salubri. Per lasciare Londra, bisognava mostrare un certificato di buona salute, rilasciato dalle autorità. Nel suo diario, Samuel Pepys offre un resoconto vivido delle strade vuote di Londra, e di come tutti quelli che potevano, se ne erano andati, nel tentativo di fuggire dalla peste. Anche la famiglia del celebre diarista trovò rifugio altrove, a Woolwhich, raggiunta in barca dal Tamigi. Le vittime della peste erano talmente tante che venivano sepolte in fretta e furia al di fuori delle mura cittadine, in fosse comuni, spesso non consacrate. Si stima che, sotto la stazione della metropolitana di Aldgate, ci sia una enorme fossa di vittime della peste, con più di 1.000 corpi. Nella mostra alla Guildhall Library, oltre alle statistiche e ai registri parrocchiali, si trovano anche libri di medicina e ricettari. Adesso sappiamo che la peste è di solito trasmessa attraverso il morso di un ratto o di una pulce infetta, ma nel 1665, c’era chi riteneva che  fosse stata causata dal passaggio nefasto di una cometa o che si trattasse di una punizione divina. I medici e i farmacisti, di cui l’80% pensò bene di fuggire, pensavano invece che la peste si dovesse a miasmi o a qualche oggetto contaminato proveniente dalla Francia o dall’Olanda. I rimedi anti-peste, atti a purificare l’aria o a tenere a bada il morbo, erano svariati ed eccentrici. Si va dai mazzolini di fiori da mettere sotto al naso, alle misture di erbe da annusare o masticare, tra cui ruta, tabacco, aglio, mirra, assenzio romano e zedoaria, ai portafortuna (Samuel Pepys teneva in tasca una zampa di lepre). Infine, le preghiere (San Rocco era il santo più invocato) e le cerimonie religiose, unica occasione di assembramento che non fosse stata abolita in città. Daniel Defoe, che nel 1722 pubblicò un Diario dell’anno della peste o La peste di Londra (A Journal of the Plague Year), aveva solo 5 anni quando si verificò la terribile epidemia, ma suo zio viveva e lavorava ad Aldgate e forse è proprio quel sellaio, indicato con le iniziali H.F., che nel romanzo narra le vicende in prima persona.
La Grande Peste è stato un evento inquietante nella City: uccise senza pietà migliaia di persone, e, unita al Grande Incendio dell’anno successivo, cambiò per sempre il volto di Londra.
London’s Dreadful Visitation: The Great Plague, 1665 è aperta alla Guildhall Library fino all’11 settembre. Ingresso gratuito.

A Londra, scoperto un cimitero della Peste Nera

 © Museum of London

© Museum of London

Per sette secoli, tredici scheletri hanno riposato indisturbati in uno dei punti più frequentati del centro di Londra. Ora, l’equipe di archeologi del Museum of London, impegnati a seguire le imprese edili che lavorano a Crossrail, progetto da 15 miliardi di sterline,  hanno scoperto i corpi sotto Charterhouse Square,  a Farringdon. I resti, erano sepolti in due file ordinate, accanto a frammenti ceramici risalenti alla metà del XIV secolo. Per gli studiosi, la disposizione degli scheletri farebbe risalire le sepolture ad un periodo iniziale della peste nera (1348), prima, cioè, che si trasformasse in una pandemia, costringendo i londinesi all’utilizzo di grandi fosse comuni. Per gli esperti, il ritrovamento è importante, in quanto, se le analisi dovessero confermare gli scheletri come vittime della peste, si potrebbe far luce anche sul morbo, responsabile della morte, tra il 1348 e il 1350, di un quarto della popolazione britannica.
Secondo le cronache del Survey of London (1598), scritte dallo storico John Stow,  in seguito alla peste (The Black Death), 50.000 corpi furono sepolti nella zona di Farringdon, che nel Medioevo era ancora “terra di nessuno”. Anche se il numero delle vittime sembra esagerato, gli esperti confidano di poter trovare molti altri corpi nelle vicinanze di quelli già scoperti. Resti accertati di vittime della peste, erano emersi nel 1980, nei pressi di East Smithfield. Il ritrovamento di Farringdon non costituisce alcun pericolo per la salute pubblica, dato che il batterio della peste si trasmette solo tra organismi viventi e non sopravvive nel terreno. Gli scheletri, non sono i primi ad essere stati scoperti durante gli scavi per Crossrail. Gli archeologi, infatti, hanno già rinvenuto più di 300 scheletri nei pressi della stazione di Liverpool Street, risalenti al XVII o XVIII secolo, e da collegarsi al cimitero dell’ospedale di “Bedlam”.
Gli scheletri di Farringdon, sono stati accuratamente scavati e trasportati al MOLA (Museum of London Archaeology) per i test. Gli scienziati sperano di mappare il DNA del batterio della peste nera ed, eventualmente, contribuire alla discussione riguardo ciò che causò l’epidemia. Circa 75 milioni di persone nel mondo, e fino al 60% della popolazione europea, perirono durante la Morte Nera,  una delle pandemie più devastanti della storia umana.