“Santo Cielo!” A Londra, la mostra su Charlie Brown

good grief charlie brown

Ebbene sì, sono cresciuta con i Peanuts. La mia infanzia ha risentito dello strascico generazionale degli anni ’60/’70, con la guerra del Vietnam, le lotte femministe, la psicanalisi, i collettivi, il consumismo dilagante. Riviste politicizzate dal titolo Linus, giornalini, gadgets, adesivi… Charlie Brown, Snoopy e amici campeggiavano da poster colorati nelle stanze dei teenagers, tra frasi esistenziali e slogan di protesta. Leggevo avidamente i libri di fumetti collezionati dalle mie cugine più grandi, all’ombra di un abete, nel giardino delle vacanze, e mi piaceva la leggerezza di questa comitiva di bambini americani, spesso alle prese con situazioni più grandi di loro. E anch’io possedevo la mia piccola collezione: l’album natalizio fine anni ’50, qualche tascabile economico, e una statuina di Snoopy, intento ad abbracciare l’uccellino Woodstock, e, sul piedistallo, la scritta ‘Love’. Me la portò mio padre al ritorno da un viaggio di lavoro, e, ancora oggi, è uno degli oggetti a cui tengo di più.
Snoopy & co. continuarono a restare famosi, anche attraverso gli edonistici anni ’80, sebbene sempre più soffocati da personaggi asiatici, coloratissimi e molto poco impegnati, del calibro di Hello Kitty, per intendersi.
Per i seguaci di Charlie Brown, quest’autunno, Somerset House ospita una retrospettiva tutta dedicata ai Peanuts, dal titolo: “Good Grief, Charlie Brown.” La mostra è disposta su due livelli: al piano terra, la nascita dei personaggi e la loro evoluzione, si intrecciano alla biografia del loro autore, Charles M. Schultz. Si evince da subito che non poteva non essere così.
Nelle foto di infanzia, Charles ha la stessa testa tonda e l’aria timida di Charlie, mentre il cane di famiglia diviene lo spunto per la creazione del fedele bracchetto Snoopy, ed il segno da rigido e acerbo si evolve via via, più spigliato e tremolante, popolandosi di bambinetti dai caratteri e dalle idiosincrasie disparati, con l’apparizione lieve e goffa del pennuto Woodstock, e le prodezze di Snoopy, scrittore e aviatore da Grande Guerra.
Al piano superiore della mostra, si illustrano le influenze che il fumetto ha avuto sulla società e il costume e viceversa. Di volta in volta, Charlie Brown è iniziatore di slang (Bonk! Good Grief!), rappresenta un’alternativa politica, racconta con leggerezza e poesia le ansie, le aspirazioni, i dilemmi di una società in cambiamento, fino ad essere preso in prestito da artisti e designer, perché anche i Peanuts, alla fine, sono ‘Pop’.
Si può dunque produrre documenti battendo i tasti di una macchina da scrivere rossa fiammante targata Snoopy, leggere libri di auto-aiuto illustrati ad hoc, perché chi da piccolo non ha mai riversato le proprie ansie su un peluche o una copertina di flanella, chi non ha rifuggito il sapone, chi non ha lottato contro l’albero cannibale, divoratore di aquiloni, chi, infine, non si è mai sentito tanto atterrito all’idea di rivolgere la parola alla ragazzina (o al ragazzino) del cuore?
E, in fondo, lo stesso banchetto da cui Lucy Van Pelt sciorina counseling spicciolo ed elargisce limonata, non è forse simile a quelle bancarelle improvvisate su cui mettevamo in vendita biglie, giornalini usati, sottopentole fatte con le mollette e il vernidas?
Non so cosa penseranno i millennials e i centennials visitando questa mostra londinese, potrebbe rivelarsi comunque un incontro fertile.
Per me, Generation X, è stato ritrovare dei vecchi amici e la parte più innocente di me stessa.

Pattinare sul ghiaccio a Londra

Fino a duecento anni fa, era abbastanza frequente per il Tamigi gelare completamente fino a due mesi l’anno. Per circa un paio di secoli, dal XVII agli inizi del XIX, la Gran Bretagna fu infatti coinvolta in una “piccola era glaciale”. Inoltre, il vecchio London Bridge ed i moli adiacenti, durante l’inverno, fungevano da diga, bloccando pezzi di ghiaccio e vari detriti, che gelavano facilmente. Nonostante i disagi dei rigidi inverni, i londinesi si dimostrarono resilienti ed audaci come sempre, costruendo delle vere e proprie fiere dotate di pubs, negozi e piste di pattinaggio. Tra il 1607 e il 1814 vi furono moltissime “frost fairs”, di cui ci hanno lasciato testimonianza artisti, scrittori e diaristi come John Evelyn. Queste fiere attraevano una multitudine di persone, tra cui anche re e regine! Ovviamente, costruire dei parchi di divertimento sul fiume ghiacciato, poneva dei rischi, e, talvolta, quando il ghiaccio cedeva, tende e persone venivano inghiottite dalle acque. Tragedie di questo tipo si verificarono nel 1739 e nel 1789, quando un naviglio, ancorato ad un edificio di Rotherhithe, muovendosi, a causa dello sciogliersi del ghiaccio, trascinò tutto via con sé. All’inizio del XIX secolo, il clima cominciò a farsi più mite e l’ultima frost fair ebbe luogo nel gennaio del 1814, con cinque giorni di feste, balli, giochi di ogni genere, rinfreschi e gare di pattinaggio. La demolizione del ponte medievale di Londra nel 1831 pose fine al fenomeno di congelamento del Tamigi, ma i londinesi non si persero d’animo e cercarono di replicare le piste di pattinaggio con mezzi artificiali. Ice rinks sorsero tra Regent’s Park, Chelsea e Westminster, dove i pattinatori potevamo esibirsi accompagnati da un’orchestra dal vivo. Il boom delle piste di pattinaggio si ebbe però negli anni Venti del secolo successivo, con l’ideazione di strutture permanenti. The London Ice Club, inaugurato nel 1927, era un circolo privato parecchio costoso. Fu democraticamente riaperto al pubblico nel 1936 con il nome di Westminster Ice Rink, ma dovette chiudere per sempre all’inizio della guerra, nel 1940. Le feste natalizie a Londra sono l’occasione per infilare i pattini ed appprofittare dei numerosi ice rinks temporanei, di cui, i più suggestivi, sono quelli organizzati a Somerset House, al Natural History Museum,  alla Torre di Londra e tra i grattacieli di Canary Wharf. Si pattina a tempo di musica, con la pista illuminata da luci colorate e l’offerta di bevande calde e speziate dai bar vicini. Se l’abbigliamento oggi è casual e sportivo, un tempo ci si doveva attenere alle regole della moda, che consigliavano dei coordinati chic e ad hoc. Se volete saperne di più, una piccola mostra gratuita al Museum of London esplora la passione dei londinesi per il pattinaggio su ghiaccio attraverso documenti ed oggetti originali, come i pattini medievali ricavati da ossa di animali. Buone Feste.

L’immaginario sistematico di Nicholas Hawksmoor, in una mostra a Londra

Christ Church, Spitalfields ©Hélène Binet

Christ Church, Spitalfields ©Hélène Binet

Nicholas Hawksmoor (c.1661-1736) ha da sempre sofferto il privilegio di essere stato allievo e collaboratore di Sir Christopher Wren. Per molti anni, la critica ha sottovalutato le straordinarie capacità e l’inventiva di uno dei più raffinati architetti del Barocco inglese. Come se l’ala protettiva del maestro Wren si fosse tramutata in una lunga e pesante ombra,  Hawksmoor è stato spesso accusato di mancare di purezza architettonica, proprio per quei tratti che, invece, ne dimostrano il genio: la versatilità dello stile, i sapienti giochi di luce, geometria e scala, l’approccio né pedissequamente classicista né eccessivamente barocco. A differenza di molti suoi agiati contemporanei, Hawksmoor non aveva mai viaggiato in Italia. Tutta la sua conoscenza di forme e stili, l’aveva appresa dai libri. Era un massone e non disdegnava di attingere ispirazione da quegli elementi di architettura religiosa che gli paressero suggestivi. Dall’antico Egitto alla Grecia, dalle moschee al tempio di Salomone, è così che i suoi edifici si popolano di simboli elaborati: obelischi, piramidi, rosette, elementi pagani. L’eccentrico architetto fu artefice della costruzione di sei nuove chiese a Londra, nate per servire le periferie in espansione della città. Ognuno di questi edifici è diverso, ognuno unico nel suo genere. Tutti sono caratterizzati da campanili, le cui guglie sono disegnate in un fantasioso stile classicheggiante, e  tradiscono nei volumi l’interazione dinamica tra esterno ed interno, di impronta borrominiana.  Le chiese di Hawksmoor  hanno temperamento ed elevazione, tramutandosi in esperienze cinetiche e articolate. A volte, gli edifici nascono all’incrocio di strette viuzze, scorci barocchi generati per essere visti ed apprezzati, grazie ai movimenti limitati di chi è in strada; meraviglie che richiedono al pedone di soffermarsi a guardare in alto, e stupirsi, cosa purtroppo sempre più rara di questi tempi. Il contrasto architettonico si dirama in tutte le direzioni e prepara alla transizione da esterno a interno, mentre le guglie punteggiano il panorama della città, assurgendo a pietre miliari e punti di riferimento.

Alle Terrace Rooms di Somerset House, fino al 1 settembre, una mostra gratuita si concentra proprio sulle chiese di Nicholas Hawksmoor. L’esposizione vuole supplire alla mancanza di documentazione visiva e fornire al contempo un’analisi dell’opera di questo valente architetto, in chiave urbanistica. La mostra è stata curata da Mohsen Mostafavi, decano della Harvard University Graduate School of Design, ed espone il lavoro della fotografa di architettura Hélène Binet. Le suggestive immagini in bianco e nero, unite a modelli in resina elaborati al computer, tentano di reintegrare le chiese di Hawksmoor al tessuto cittadino, investigandone l’ideazione all’interno di un progetto urbanistico più ampio.

 

You’ve Come A Long Way, Baby

rolling stones 1962Chiunque  si fosse trovato a Londra nel lontano luglio 1962, sarebbe rimasto abbastanza deluso dal tempo, non proprio estivo. La maggior parte del mese fu asciutto, seppur nuvoloso, ma la colonnina di mercurio difficilmente superò i 14°C. I giovani di allora, vestivano da adulti, con giacche, cravatte e vestiti un pò stazzonati, per lo più realizzati in materiali economici, ravviati da qualche sobrio accessorio o un paio di occhiali dalla montatura grande e spessa. I semi del cambiamento stavano però silenziosamente germogliando. Da qualche parte un Hendrix adolescente cominciava a strimpellare la chitarra e i Beatles, agli inizi di ottobre, avrebbero pubblicato il loro primo sigolo ‘Love Me Do’. I giovani dell’epoca erano ancora attirati da sonorità d’oltreoceano, come Jazz e Rock’n’Roll. La sera del 12 luglio 1962, una nutrita audience di poco più di un centinaio di persone, per la maggior parte di sesso maschile, si radunò in un locale, al numero 165 di Oxford Street. Il Marquee Club aveva aperto i battenti nel 1958 e si era subito segnalato come venue per concerti di musica jazz and rhythm & blues. Quella sera, come gruppo di supporto dei The Blues Incorporated, si esibì una band di giovani, chiamati Mick Jagger & The Rollin’ Stones. Christopher Sandford, biografo della band, ricorda che il cantante salì sul palco in giacca a righe e pantaloni di velluto a coste, mentre il chitarrista indossava un completo nero, abbastanza lugubre. Sembra che il gruppo, per calmarsi i nervi durante il concerto, ingurgitasse una cospicua  quantità di brandy e whisky, mentre l’aria stantia del locale, si faceva sempre più acre di tabacco e sudore. L’esibizione andò in crescendo, con gli ultimi 15 minuti di musica eseguiti a ritmo serrato. L’incasso della serata ammontò a 5 sterline per ciascun membro della band, eccetto Brian Jones, che ricevette 6 sterline e 10 scellini. Poi, i Rolling Stones, uscirono dal Marquee, e se ne andarono a bere un drink o due al pub di fronte, che, tra l’altro, esiste ancora: il Tottenham, al n.6 di Oxford Street.

Per celebrare i 50 anni di successo dei Rolling Stones, Somerset House ospita  una mostra gratuita, fino al 27 agosto 2012.