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1^ Domenica d’Avvento

advent calendar
E anche dicembre è arrivato, con la pioggia, il buio alle 4 del pomeriggio, i mercatini di Natale, le cene e i drinks, lo shopping frenetico, i dolcetti ipercalorici, le luci colorate…Ho tirato fuori gli addobbi e l’alberino dell’anno scorso e poi ho comprato un calendarietto dell’Avvento che mi piace tanto, perché con i suoi colori vivaci e i numerini scritti piccolissimi mi dà più gusto nel cercare la finestrella da aprire. Per il resto, come dicevo, piove e tira un ventaccio freddo, condizioni meteo che rendono quasi stoico l’andare in giro per mercatini e simili. Col berretto calcato in testa e la sciarpona di pura lana nepalese comperata al negozietto vintage di fiducia, mi sono avventurata fino in SE10 per dare un’occhiata alle bancarelle e, soprattutto, godermi al calduccio un tradizionale Sunday Roast (visto che non mi capita spesso di non lavorare di domenica). La scelta è caduta su The Plume of Feathers, uno dei pochi pub tradizionali rimasti nella zona (negli ultimi anni ci sono state molte chiusure e/o pessime ristrutturazioni, senza un minimo di rispetto storico-architettonico, basti vedere cosa hanno fatto recentemente al pub davanti alla stazione di Greenwich). The Plume of Feathers, al numero 19 di Park Vista, è un dignitoso locale a ridosso del parco, che pare risalga al 1691, anche se la veste è per lo più vittoriana, come si evince dall’esterno in tipiche piastrelle verdi. C’è un bel caminetto, l’arredamento d’epoca, una pendola, i quadri con i velieri, i vetri colorati alle finestre con l’insegna di San Giorgio, la musica non è troppo alta, e il confortevole spazio attira una congerie di clienti abituali ed occasionali, conditi a volte dalla presenza di qualche turista. Il lauto pranzo domenicale consisteva in Roast Loin of Pork with Apple Sauce and cracklin (incluse le immancabili verdure, lo yorkshire pudding e il gravy) e per dessert un bel Bread and Butter Pudding with Custard.
Una giusta zavorra per non volare via ^_^ e abbastanza carburante per permettermi di ritornare in SE4 a piedi, gustarmi un italico e casalingo espresso e poi poltrire beatamente sul divano, al riparo dalle intemperie, con i giornali e la musica.
sciarpa nepaleseplume of feathers
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Sulla Luna…

in the shadow of the moon

“Un piccolo passo per l’uomo… un grande passo per l’umanità”, un falso clamoroso, un evento epocale… Sullo sbarco sulla luna e le varie missioni ad esso collegate si son sprecati fiumi di inchiostro e di parole. Comunque la si pensi, il bellissimo film – documentario che ho visto stasera,  In the Shadow of the Moon, mira a regalare emozioni con la sola forza evocativa delle immagini (gli affascinanti filmati originali delle missioni Apollo, tratti dagli archivi della Nasa,) e delle testimonianze di chi ha vissuto in prima persona l’avventura nello spazio e l’incontro con la Luna. Grazie al ritrovamento delle bobine audio originali, il film è stato arricchito anche da voci e suoni privati, quelli degli astronauti e dello staff al centro di controllo di Houston. All’ombra della luna si è svolta in un certo senso la mia esistenza. Anche se non ero davanti allo schermo quando Tito Stagno esclamava “Ha Toccato!” (in anticipo!), la portata di quell’evento era destinata a segnare profondamente l’immaginario collettivo degli anni a seguire, perché il fatto era in qualche modo recente e i miei genitori, la maestra, i cugini grandi, la TV, tutti ne parlavano, raccontando retroscena ed episodi.  Mio padre aveva persino conservato per me una copia del settimanale EPOCA, che, in un bel reportage fotografico, raccontava quel 21 luglio 1969.  Le foto erano tratte dal 16mm, e mi ricordo la stampa patinata, i colori netti, la trama sgranata dell’immagine con la navicella in viaggio nel cielo azzurro, e poi la folla a naso in su, gli uomini col cappello e la signora con gli occhiali da sole a goccia e il fazzoletto in testa, fino agli astronauti sul suolo lunare. Quella rivista, che era un’eredità oltre che un regalo, non ce l’ho più. E’ andata persa (o forse, trafugata, chissà) nel trasloco del 2000.  Un cruccio, certo, ma ho imparato, a forza di viaggiare e cambiare indirizzi, che non bisogna attaccarsi troppo alle cose materiali, perché ciò che davvero conta nella vita sono le emozioni, i ricordi, le esperienze e i racconti di chi c’era e ci ha voluto regalare il suo tempo.
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Squared up

sickert

Mi sono svegliata, fuori il cielo era grigio biancastro ed il prato era ricoperto di brina. 

A Somerset House hanno già montato la pista del ghiaccio e l’albero di natale. Siamo stati in giro a disegnare prospettive di colonnati e scaloni. Io assistevo l’insegnante, con matite, gomme da cancellare e suggerimenti. Non avevo mai lavorato prima con S. Un tipo buffo… Prendete la sagoma di Richard Ashcroft dei Verve e scecheratela con i lineamenti di Manu Chao. Poi calcategli in testa un berretto da pescatore di tonni e mettetegli dei jeans a vita bassa, molto bassa. Infine fategli uscire dalla bocca un idioma da inglese north of the river il cui mantra, ad ogni linea di matita ben eseguita, è "jolly good" ed otterrete un’idea del personaggio con cui ho passato 3 ore, circondata di bimbi e genitori, come nella favola del pifferaio magico. Bravo S., magari la prossima volta suggerirei un pò più di eye contact e qualche spiegazione supplementare, che non è che tutti sanno cos’è un punto di fuga.

Finito il workshop e tracannato un cappuccino brodaglia, già che c’ero, sono andata a vedere una piccola grande mostra al Courtauld Institute, dal titolo: "Walter Sickert – The Camden Town Nudes." Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 Camden non era proprio la zona trendy dei nostri giorni, anche se la musica costituiva già l’attrazione principale e l’area pullulava di music halls, bar e teatrini. Vi abitavano per lo più attricette, prostitute, immigrati irlandesi, famiglie povere (persino il Bob Cratchit di Dickensiana memoria) e furfanti di varia natura. Questo sordido e vivace ambiente esercitava un certo fascino su gentiluomini a caccia di avventure o artisti in cerca d’ispirazione. Sickert fu un prolifico disegnatore, oltre che valente pittore. Le prostitute e i cabaret facevano parte del suo mondo e per un periodo ebbe un’atelier a Mornigton Crescent. Sickert dipingeva interni desolati e nudi caratterizzati da un crudo realismo, scandaloso e scomodo per l’epoca. Donne dai fianchi generosi, seni flaccidi, pose scomposte, prospettive sbilenche, povere cose disseminate in stanze dalle pareti annerite, la carta da parati a losanghe, un pitale sotto il letto e la luce fredda sui corpi inermi. Nel 1907 una giovane prostituta, Emily Dimmock, fu ritrovata morta, con la gola tagliata. Ancora vivido era nelle menti il ricordo di Jack The Ripper, e, come 19 anni prima, l’assassino di Emily non venne mai preso. Sickert si interessò al caso, e nacquero una serie di nudi, dall’impasto spesso, quasi fangoso, e dai titoli ambivalenti. Una Londra torbida, povera, fatta di nebbia, stracci e alcohol. Altro che il folklore delle bancarelle e le notti brave della Amy Winehouse!

Per restare in tema di alcohol, un mio collega festeggiava il compleanno in un pub scalcinato di Bloomsbury, la cui saletta al piano superiore altro non era che l’originale living-room dell’esercizio vittoriano. Un arredamento molto evocativo: tendaggi pesanti, poltrone spelacchiate, un caminetto con le mattonelle floreali e una pittura pesante alle pareti. Ci mancava solo un nudo in penombra, accasciato sul divanetto… Haha! Nel suddetto pub sono rimasta solo 2 ore, finché tutti erano ancora sobri, dato che alle feste angle si beve a raffica, ma non c’è mai niente da mangiare e bevendo a stomaco vuoto si sa come va a finire… 

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Qualcosa di cui andar fieri

Nella vita reale e tangibile di tutti i giorni, ci sono piccole cose di cui andar fieri, come ad esempio la mia piantina di peperoncino. Era nata come esperimento, un mio amico l’aveva piantata in notevole ritardo, e quando l’ho presa era solo un ramettino tenero e verde. Con amore l’ho cresciuta e curata, orientandola per farle prendere ogni possibile raggio smunto di sole anglo, in una stagione alquanto avara. A chi mi diceva che la piantina era in ritardo, e che il peperoncino fiorisce ad aprile e non ad agosto, rispondevo che non importava, che come pianta ornamentale . Verso la metà di settembre ecco spuntare dei piccoli peperoncini verdi. Ignorando i disfattisti per i quali non sarebbero mai potuti diventare rossi, ho continuato a dare acqua, a cercare di trovare un po’ di sole.

Against all odds, oggi ci sono 8 peperoncini rosso fuoco che penzolano fieri dai rami fronduti.

La morale spetta a voi trovarla…

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La Rana di Liu Hai

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Liu Hai era un ministro del governo imperiale cinese, vissuto nel decimo secolo d.C. Appassionato di alchimia taoista, fu esiliato dalla corte e passò gli ultimi anni della sua vita in solitudine.
L’immaginario popolare ha finito per trasformare Liu Hai in una sorta di mago, sempre con un ranocchio sulla spalla. L’anfibio, pescato dallo stagno e assoggettato ai suoi voleri, grazie ad esche fatte di monete d’oro, ha solo 3 zampe ed è capace di portarlo ovunque.
Dalla leggenda di Liu Hai deriva l’usanza di mettere, negli esercizi commerciali dei paesi del Sud-Est Asiatico, all’ingresso o sulla cassa, l’effige di una rana, decorata con monete o recante una moneta in bocca.
L’animale è notoriamente simbolo di prosperità, fertilità, trasformazione e rinascita.
Sarà una coincidenza, ma da quando ho attaccato una stampina giapponese raffigurante un rospo perplesso, sul muro di fronte alla porta di casa, ci sono state varie novità:
– Mi sono entrati due lavori nuovi [prosperità];
– Due dei nove frutti del peperoncino, che ho piantato in ritardo, da verdi sono finalmente divenuti rossi [fertilità];
– Ho adottato una pianta ornamentale gigante, una Schefflera actinophylla, soprannominata “Giungla”, che i miei amici P&A non potevano più tenere, perché hanno preso due gattini e – non lo sapevo – certi “vegetali” da appartamento sono velenosissimi per i felini [trasformazione]. 

Non male,ora aspettiamo la rinascita…

Nel vecchio stagno
una rana si tuffa.
Il rumore dell’acqua.

Matsuo Basho

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In poche parole…

malta

… Sono appena tornata dal centro del Mar Nostrum, da ciò che per secoli ha rappresentato un crocevia di influssi e culture, sapori e colori, assedi e conquiste: Malta. Un’isola che ho scoperto essere un pò come me, ora: a metà strada. Un ibrido tra la modernità nord-europea e la tradizione mediterranea. Un mondo dove convivono tranquillamente barchette di pescatori e cabine telefoniche rosse, edicole barocche popolate da madonnine, angeli e santi e nicchie con la regina Vittoria, il tè delle cinque e l’aperitivo delle sette, Caravaggio e Turner, gli autobus gialli, sgangherati, con le foto e il rosario, e gli albergoni avveniristici, pieni di angli in vacanza, le pubblicità in maltese e le scuole di inglese, la GS e i Jaffa Cakes, Rai Uno e la BBC. Di Malta mi è piaciuto quel senso un pò ruvido, di abbandono, fatto di muri scalcinati, panni stesi alle finestre,insegne lise dal tempo, carrozzelle trainate da ronzini stanchi, gabbie di canarini sui balconi, gatti sornioni davanti alle taverne, fontanelle sparute, persiane socchiuse, opulenze nascoste e dolcezze antiche dai nomi esotici: imqaret, qubbajt, qaghaq tal-ghasel, kannoli. Qui in terra angla si respira ormai l’odore ancestrale dell’autunno, terra umida e uva appassita. Disorientata, come alla fine di una passione, come allo svaporare di un sogno, calpesto tappeti di foglie secche, mentre già nel cielo basso, ai raggi di sole smunti si sostituiscono nuvole gonfie di pioggia… ma va bene così…
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eleventypes

eleventypes
Giorno libero e pioggerellina fina che viene giù intermittente. Per uscire mi metto la magliettina vintage, quella bianca anni sessanta, con le paillettes madreperlate, e la sciarpa di seta svolazzante, da morte del cigno. Pranzo a South Kensington con l’amica americana e quella francese per discutere di un progetto professionale. Siamo ancora in alto mare, la francese finché non vede non crede, l’americana punta ottimisticamente sulla vision, mentre io la butto sul pragmatico. Staremo a vedere, comunque il brunch era molto buono e il padrone della crêperie ci ha anche offerto una sua creazione omaggio, la crespella col cioccolato bianco e le fragole. L’amica americana mi ha poi invitato a casa sua. Ci dovevo restare una mezzoretta, ma chiacchiera chiacchiera si son fatte le 6! Questo non mi ha impedito di recarmi in centro per le commissioni improrogabili che avevo programmato, nonché avventurarmi fino a Old Street per un vernissage.
La galleria straripava di gente e sembrava un vagone della tube nell’ora di punta. Mi sono intrufolata, ma non riuscivo a vedere le opere, solo spalle, mani gesticolanti, visi accaldati e bicchieri di vino sgocciolanti, branditi qua e là mentre si chiacchierava d’altro. Sono uscita quasi subito, per evitare la claustrofobia. Tuttavia non è stato un viaggio a vuoto. Infatti ho incontrato uno dei dieci fotografi internazionali selezionati da Aaron Schuman per Saatchi magazine, felicissimo della recensione che avevo scritto su di lui il mese scorso. E ho anche scoperto che, sul blog d’artista, non solo ha linkato il pezzo, ma lo ha trasformato, sovrapponendo 11 righe ad uno dei suoi bellissimi lavori…

© R.Cracknell
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Sospesa fra due mondi


Sarà il vento caldo dell’estate, ma quando torno in patria i sentimenti si fanno ambivalenti. A volte penso che con l’esilio questi confini siano divenuti sterile luogo comune, quasi depliant turistico decantante bellezze e gastronomie di un’entità geografica che un tempo per me era casa. Gli amici veri restano, comunque vada e dovunque io sia, ma le nostre vite hanno preso direzioni diverse. Quando sono qui mi sembra sempre di essere un fiore o un animale esotico, un’attrazione da serraglio. Così la ragazza "che ormai è diventata proprio un’inglese, eh?!" colora di novità il quotidiano di chi è rimasto, ascoltando paziente gli sfoghi di chi crede io non abbia mai dubbi o difficoltà. Sento un sapore strano nell’aria rovente, la certezza ineluttabile che non si può tornare indietro: vivessi nuovamente qui, tutto sarebbe anacronistico e complicato, come rientrare nelle forme sgualcite di una veste che non calza più.
Ancora vegeta e incredula, mi tocca dunque assistere alle suggestioni da caro estinto: come in un sogno, mi aggiro, pallido essere, in stanze ricolme di oggetti che ho amato, tra foto incorniciate da mia madre, altarini di una vita che ho trascinato via da qui, in un lontano pomeriggio di settembre.
Il tempo vola ed io tornerò presto a raccontare di SE4, ma non prima di aver assaporato fino in fondo i colori, i sapori e le forme della mia città natale e delle antiche colline toscane, che raggiungerò domani.

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W/E in Logoborro


Come alcuni affezionati lettori han forse intuito, ho trascorso il weekend in quel di Logoborro, in compagnia della Mawiapia, la quale mi ha ufficialmente affidato il compito di riassumere la nostra intensa due giorni evitando sputtanamenti e anche la pubblicazione di foto compromettenti che tanto piacerebbero al Guro.
Ora, l’esperienza, come dicevo, è stata intensa.
Pensate ad un’umanista londinese che lascia il caos frenetico della metropoli per tuffarsi nella calma a misura d’uomo (e di donna) della campagna angla e per due giorni ha a che fare con gente interessante, che usa il cervello, che ha lauree in biologia, chimica, matematica, ingegneria, insomma tutto quello che per me è ostrogoto, ma che non ha nulla del secchione, e anzi vive brillantemente e fino in fondo questo microcosmo multiculturale di cittadina universitaria,Sfelicità a momenti e futuro incerto.

Prendete questa manciata di gente e mettetela su un treno per Nottingham, fatela girovagare per strade ventose, pub vetusti, vetrine in serie, selciati di cemento, camioncini dei gelati, arceri di bronzo.
Poi seguite questo gruppo di persone fino alla casa del basilico, spiate le mosse degli italiani che cucinano 4 tipi di pasta, il torinese che vuole mettere il parmigiano ovunque, la sarda che lo vuole nell’insalata, ma senza le noci, e la romana che decide di cimentarsi in una puttanesca per 11 persone. E siccome a Roma “na bòna magnata va a braccetto co’ na bona risata e na’ cantata tutti ‘nsieme”, la tradizione la si esporta a Logoborro, e agli angli basiti abbiam fatto fare il coro sulle canzonacce delle Osterie. E sì, avremmo le foto, e anche il filmino, ma questi sono ricordi solo nostri, io al massimo vi passo la ricetta per la puttanesca x 6:

– 500 gr di pomodorini freschi
– 3 spicchi d’aglio
– 1 dl e 1/2 di olio d’oliva
– un pezzetto di peperoncino forte
– 50 g di capperi
– 100 g di olive snocciolate
– sale, solo se occorre
– 600 g di linguine sottili

Esecuzione:
Fate soffriggere l’aglio e il peperoncino nell’olio, aggiungere i capperi, le olive snocciolate e i pomodori pelati tagliati a pezzettini.
Lasciate cuocere a fuoco basso fino a quando i pomodori appaiono ben cotti. Scolare la pasta e condirla con il sugo.

P.S.
Comunicazione di servizio:
Pietta, ho scoperto che la Brush non fabbrica spazzole ma…
locomotive et similia!!!

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E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un pò…

luna

Art thou pale for weariness
Of climbing heaven and gazing on the earth,
Wandering companionless
Among the stars that have a different birth, –
And ever changing, like a joyless eye
That finds no object worth its constancy?

To the Moon – Percy Bysshe Shelley

Si ha un’eclisse di luna piena quando la terra si frappone fra il sole e la luna, proiettando così la sua ombra su quest’ultima e interrompendo il flusso della luce e delle energie.
Sarà un caso, ma sembra che le eclissi di luna capitino sempre quando la mia vita attraversa fasi ingarbugliate, segnate sia da dubbi sul futuro che da impazienti scalpitamenti di incosciente gioventù.
La prima volta che vidi un’eclissi di luna ero a Roma e me la ricordo bene, come se fosse oggi: 16 settembre 1997.
Faceva ancora caldo, avevo addosso la mia maglietta preferita e registravo il concerto dei Radiohead a Glastonbury su una cassetta da 90, quando l’artista, con cui avevo una contorta relazione e che di lì a poco sarebbe partito per l’America, mi diede una punta improvvisata, giù all’incrocio delle vecchie case, per vedere assieme l’insolito spettacolo. Mi ricordo questa luna tonda, grande, incredibilmente vicina, offuscarsi e diventare violacea, a poco a poco.
Seguirono altre eclissi. Quella del 9 gennaio 2001 la vidi dalla finestra della cucina. L’artista era uscito dalla mia vita, le vecchie case erano state demolite e io ora abitavo in una casa nuova, con nuove aspirazioni e prospettive.
La terza eclissi, invece, non la potei vedere, perché il 28 ottobre 2004 ero già da un anno emigrata in terra angla e il cielo quella sera era tutto una nube (in quel momento anche la mia vita, haha).
Stasera, invece, il cielo è insolitamente pulito e così ho potuto vedere la luna divenire, da bianca e metallica, distante e annerita, come se l’avessero ricoperta di fuliggine.
E a Londra la luna è a destra, mentre a Roma appare a sinistra, perché la latitudine e la curvatura del cielo sono differenti.
Ora ho circa 4 lustri di tempo per vederci chiaro e darmi una calmata.
Prossima eclissi: 2026.