Nel folklore inglese, feste e cerimonie di ringraziamento per il raccolto andato a buon fine, si celebrano fin dai tempi pagani. L’Harvest Festival, divenuto una festa cristiana, si svolge tradizionalmente nella domenica di luna piena più vicina all’equinozio d’autunno. Di solito le celebrazioni, oltre a prevedere inni e preghiere, includono meravigliose composizioni di frutta e cibo. A Londra, nella chiesa di St-Mary-at-Hill, il Festival del Ringraziamento, celebra la raccolta dei frutti del mare ed il lavoro di facchini e pescivendoli del mercato di Billingsgate, che fu al centro del commercio del pesce per secoli. Il mercato, dal 1982, si è trasferito in una struttura più moderna e funzionale, ad Isle of Dogs, vicino Canary Wharf, mentre la vecchia sede è stata trasformata in un centro per conferenze, mostre e congressi. Ogni anno, però, la seconda domenica di ottobre, i facchini ed i pescivendoli tornano a St-Mary-at-Hill per celebrare il tradizionale “Harvest of the Sea”. E’ uno spettacolo unico: l’atrio della bella chiesa, progettata da Sir Christopher Wren, viene decorato con reti da pesca, conchiglie ed un quantitativo spettacolare di pesci e frutti di mare, freschissimi e sistemati ad arte su un letto di ghiaccio. La composizione resta in mostra per tutta la durata del servizio, in cui alle preghiere della congregazione, si mescolano poesie, musiche tradizionali dedicate alla pesca, ed effluvi di salsedine. Alla fine della festa, il pesce viene raccolto e donato al Queen Victoria Seamen Rest, un’istituzione benefica che offre alloggio ad ex marinai mercantili, membri della Royal Navy e uomini senza fissa dimora di diversa estrazione sociale.
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L’eccentrico ritratto di Hester Thrale Piozzi
In una delle mie recenti visite alla National Portrait Gallery, sono rimasta colpita da un ritratto di modeste dimensioni, in cui la gentildonna sembra indossare degli abiti ed accessori lievemente diversi dal solito. Il rouge alle guance, la cuffia, i pizzi, la cromia dell’abito non costituiscono certo una novità nella moda femminile della fine del XVIII secolo, eppure qualcosa rende la dama particolare. La didascalia del quadro ne spiega la presenza: Hester Lynch Piozzi (nata Salusbury, poi Thrale), scrittrice ed amica del Dr Johnson. Il ritratto fu dipinto nel 1785-1786 da un pittore italiano, rimasto sconosciuto.
Hester fu una scrittrice assai prolifica e versatile. Produsse una biografia di Samuel Johnson in forma aneddotica, che andò esaurita nel primo giorno di pubblicazione, ed in seguito, pubblicò la corrispondenza privata (oltre trecento missive) che aveva scambiato con l’illustre letterato. Inoltre, nel 1789, diede alle stampe un vivace resoconto del suo Grand Tour, proprio quello in cui si trovava impegnata quando decise di posare per il ritratto. E’ la stessa Hester ad ammettere che la sua mise appare alquanto originale. Questo perché il vestito da viaggio era stato acquistato a Roma, il velo e la camicia a Napoli, il pizzo a Genova ed il resto dell’abbigliamento in Inghilterra. Il Grand Tour era stato un viaggio di scoperta ed istruzione, per lei, ma anche una luna di miele di due anni e mezzo, in compagnia del secondo marito, il musicista italiano Gabriele Piozzi.
Questa unione aveva creato un certo scandalo a Londra ed era stata vivamente disapprovata dagli amici e dalla primogenita di Hester, nonché dallo stesso Dr Johnson, con il quale si interruppe un rapporto di familiarità e collaborazione professionale, durato oltre sedici anni. Per una gentildonna come Hester era sconveniente il matrimonio con un emigrato Italiano, per niente nobile e, per giunta, cattolico. Inoltre risposarsi a 43 anni, per amore, appariva davvero un colpo di testa. Il primo matrimonio di Hester era durato un ventennio e lo sposo, il ricco borghese Henry Thrale, proprietario di una fabbrica di birra, le era stato caldamente proposto, e, in un certo senso, imposto, dallo zio e da sua madre, preoccupati entrambi per le sorti di una fanciulla piacevole, intelligente ed educata, ma povera di mezzi. Fu un matrimonio di interessi, costellato da tredici gravidanze (solo quattro figli sopravvissero all’età adulta), punteggiato di preoccupazioni, lutti e dispiaceri, tuttavia portato avanti con rispettabilità e lealtà. Nella casa di Streatham Park, Hester aveva assunto il ruolo di ospite impareggiabile ed aveva raccolto attorno a sé un nutrito gruppo di artisti e letterati, attratti dal magnetismo di Johnson ed intrigati dalle capacità poetiche e letterarie della padrona di casa, che traduceva fluentemente italiano, francese e latino, e continuava a scrivere e studiare, quando non era impegnata con la prole. Henry Thrale, un uomo severo, schivo e di poche parole, accettò di buon grado queste riunioni, ed, anzi, chiese a Joshua Reynolds di dipingere alcuni ritratti degli illustri ospiti, da appendere nella sua biblioteca. Inoltre, regalò ad Hester sei volumi rilegati in pelle, che divennero “Thraliana”, dei diari in cui la scrittrice raccolse avvenimenti privati, ma anche commenti ed osservazioni dei personaggi che frequentavano la sua tavola per il tè o la cena, e che servirono come base per gli aneddoti sulla vita di Samuel Johnson. Questi diari, e le “Osservazioni e riflessioni nate nel corso di un viaggio attraverso la Francia, l’Italia e la Germania”, costituiscono una vivace e sensibile narrativa, che non solo è piacevole da leggere, in quanto mette in luce usi, costumi e modi dell’ultimo trentennio del Settecento, ma risalta nel panorama letterario dell’epoca, come esempio di voce originale e tutta al femminile. Va da sé che Hester, durante il soggiorno italiano, non si limitò solo a fare acquisti e sedere per il ritratto della National Portrait Gallery, ma frequentò anche una cerchia di emigrati inglesi e radicali italiani, tra cui Ippolito Pindemonte, gravitando, per un certo periodo, nel gruppo di poeti sentimentali, fondato a Firenze da Robert Merry, i cosiddetti “Della Cruscans”.
Per approfondimenti su questa scrittrice, consiglio il libro di Marianna D’Ezio (che è tratto dalla sua tesi di dottorato): “Hester Thrale Piozzi: a taste for eccentricity”, pubblicato da Cambridge Scholars nel 2011.
Fiera della Lana e Sheep Drive 2016
Oggi moltissimi turisti e londinesi che si trovavano ad attraversare London Bridge, sono rimasti sorpresi nel vedere un gregge di pecore farsi largo nel traffico, sospinto gentilmente da un gruppo di personaggi in livrea. La tradizione di guidare delle pecore attraverso il ponte, è fortemente radicata nella City e risale a quando, oltre 800 anni fa, London Bridge era l’unico attraversamento del Tamigi ed il solo percorso che permetteva di raggiungere il mercato cittadino. La Freedom of the City of London era, in origine, una licenza che permetteva, a chi la possedeva, di negoziare e commerciare liberamente nella capitale, senza pagare tasse e portando con sé gli attrezzi del mestiere. I Freemen erano pertanto esenti da pedaggi quando guidavano il loro bestiame attraverso il London Bridge e questo era un privilegio economico molto prezioso in epoca medievale. Oggi, questa antica e onorevole tradizione si esercita annualmente solo per scopi benefici e l’evento è organizzato dalla Compagnia di livrea dei Lanaioli (Worshipful Company of Woolmen). Questa deriva dalla corporazione medievale che regolava il commercio della lana, che per centinaia di anni fu assai prospero e regolato da leggi reali, che imponevano di indossare berretti, foderare carrozze e addirittura bare, di pura lana inglese.
La Worshipful Company of Woolmen, oltre ad organizzare il tradizionale passaggio delle pecore attraverso il ponte, quest’anno, in collaborazione con the City Wool Alliance, ha anche allestito una piccola fiera della lana, radunando una serie di commercianti, che hanno mostrato al pubblico l’ampio uso di questa fibra naturale ed ecologica. Tra gli stand commerciali, anche quello dell’organizzazione One Hut Full, uno schema che si propone, attraverso prodotti e storie, di portare il largo pubblico a conoscenza di un’antica e rara razza di pecore del Devon, le Whiteface Dartmoor, che sono ormai ridotte a circa 1000 esemplari, contro i 72.000 del periodo d’oro del commercio della lana inglese.
Una casa del primo Settecento, a Spitalfields
Come ogni anno, l’atteso weekend di Open House London, ha spalancato i battenti di centinaia di luoghi difficilmente accessibili al pubblico: case, palazzi, edifici di culto, siti archeologici, stabilimenti ed infrastrutture.
Come ogni anno bisogna essere organizzati, strategici e flessibili, non dannarsi se gli orari o i giorni di apertura subiscono cambiamenti all’ultimo minuto o il sito internet della manifestazione si pianta. L’importante è sapere quello che si vuole e stabilire dei limiti. Quest’anno, non avendo molto tempo a disposizione, e per nulla voglia di fare delle file chilometriche o di circumnavigare la città, ho scelto di visitare degli edifici simbolo della lunga storia di immigrazione che ha caratterizzato Londra, da sempre.
Tra questi, una casa settecentesca, al n. 13 di Princelet Street.
Costruita da Edward Buckingham nel 1719, in quella che, all’epoca, era un’area prosperosa, appena fuori le mura della City, e, per questo, prediletta da immigrati, la casa fu abitata da una famiglia di Ugonotti. La popolazione di Spitalfields era costituita in gran parte da immigrati francesi, sfuggiti alle persecuzioni religiose, dopo che il protestantesimo era stato dichiarato illegale con l’Editto di Fountainebleau, nel 1685.
Gli Ugonotti avevano portato con sé molte abilità, che seppero mettere a frutto.
Erano bravi orologiai, gioiellieri, argentieri e, soprattutto, tessitori di seta. Molte delle case che ancora sopravvivono nel quartiere, fra Princelet Street, Folgate Street e Spital Square, mantengono un’aria austera e dignitosa, con le imposte alle finestre, e gli ultimi piani spesso rischiarati da lucernari, dato che un tempo servivano ad ospitare i telai.
Le sete tessute dagli Ugonotti erano ispirate alla natura e mirabilmente decorate da un intreccio di fiori, foglie e insetti. Purtroppo, questa prosperità non durò a lungo. Infatti, agli inizi del XIX secolo, l’industria del tessile entrò in crisi, e agli Ugonotti impoveriti, si aggiunsero altre ondate di immigrati, rendendo l’area sempre più povera e malsana.
Agli inizi degli anni Ottanta, Peter Lerwill comprò la casa, ormai ridotta ad un rudere, e, assieme all’architetto Julian Harrap, iniziò un attento restauro, che durò tre anni. Molte delle caratteristiche settecentesche erano state mantenute inalterate, così come la pianta originale. Gli interventi furono di tipo conservativo e tutte le modifiche necessarie a rendere la casa abitabile (riscaldamento, cavi elettrici, tubature, eccetera), furono attuate con rispetto e cura. Così i caminetti conservano ancora il rivestimento in piastrelle, bellissime e tutte diverse, ognuna con una storia da raccontare, i muri sono coperti da pannelli di legno che hanno resistito all’affronto dei secoli, e le scale seguono le diagonali di assestamento della casa. Sulle pareti, campeggiano ritratti settecenteschi e stralci di sete intessute, a memoria di chi visse in questi ambienti, secoli fa. L’abitazione, alla morte di Lerwill, fu lasciata in eredità a The Landmark Trust, un’associazione benefica che restaura edifici storici o di importanza architettonica, per adibirli a case vacanze.
13 Princess Street può ospitare fino a 6 persone. Per info: 0044(0)1628 825925.
Il pittoresco geniale di Capability Brown
Lancelot Brown, architetto di paesaggio inglese, era nato in Northumberland nel 1716 e fu apprendista giardiniere presso Sir William Lorraine. Brown si trasferì poi nel Buckinghamshire e, nel 1741, fu impiegato da Lord Cobham, in qualità di capo giardiniere a Stowe. Questo impiego, gli diede l’opportunità di lavorare con due affermati architetti: John Vanbrugh e William Kent. Con William Kent, uno dei fondatori del nuovo stile, piu’ naturale, di paesaggio, strinse un forte rapporto di amicizia e stima, cementato anche dal fatto che ne sposò la figlia Bridget, nel 1744.
Successivamente Brown esercitò l’attività di architetto di paesaggio in proprio, progettando sia case che giardini. Nel 1764, fu nominato da re Giorgio III Maestro Giardiniere di Hampton Court. La sua pratica si espanse rapidamente e lo vide spesso in giro per l’Inghilterra.
Il soprannome di ‘Capability‘ gli derivò dalla predilezione di spiegare alla clientela come la loro tenuta di campagna possedesse grandi ‘capacità’ di miglioramento.
I progetti di Capability Brown erano molto di moda, essendo una raffinatissima versione dello stile naturalistico, che aveva spazzato via quasi tutti i resti di precedenti stili formalmente a motivi geometrici.
Secondo i dettami del pittoresco, i giardini di Brown erano eleganti e confortevoli, caratterizzati da prati erbosi, che arrivavano fino alle soglie di casa, e animati da cespugli, bordure, laghetti, fiumi serpeggianti, e boschi. Lo sguardo poteva perdersi al di là del giardino e spaziare nel paesaggio circostante grazie all’espediente del ha-ha, un confine invisibile costituito da una specie di trincea, posta a sorpresa al limitare della tenuta. Simile risultato si otteneva tramite un sapiente posizionamento di specchi e corsi d’acqua non connessi tra loro, ma percepiti dallo sguardo come un tutt’uno.
La reputazione di Brown diminuì rapidamente dopo la sua morte, perché lo stile pittoresco di paesaggio non trasmetteva quel conflitto drammatico causato dalla potenza della natura selvaggia. L’ideale romantico era in conflitto con l’armonia e la quiete dei paesaggi di Brown, che mancavano dell’emozione sublime.
Criticato aspramente nel XIX secolo, lo stile paesaggistico di Brown fu via via rivalutato nel corso del XX, ed oggi l’architetto è riconosciuto come un genio dello stile di giardino inglese.
A trecento anni dalla nascita, Capability Brown è celebrato con iniziative varie, tra cui mostre, conferenze e visite guidate nei suoi famosi parchi e tenute.
Per un programma dettagliato, potete visitare la pagina: http://www.capabilitybrown.org/events
London Stone: una pietra millenaria
Le origini della London Stone sono incerte, ma si pensa fosse in origine una pietra miliare romana, con cui si indicavano le distanze dal centro di Londinium, l’insediamento commerciale romano, ad altri luoghi strategici della Britannia. Il masso era chiamato anche “pietra di Bruto”, dal leggendario eroe troiano, che l’avrebbe portata con sé fin qui e, forse, utilizzata come altare pagano. Nei secoli successivi, la pietra continuò ad essere un punto di riferimento importante nel cuore della città, non solo per ragioni geografiche. La London Stone fu infatti utilizzata di volta in volta come sito per promulgare leggi, raccogliere denaro, fare giuramenti o annunci ufficiali. Vi ci si recava anche per controllare o testare delle merci, come, ad esempio, le lenti di cattiva manifattura (che qui venivano infrante dai rappresentanti della Confraternita dei Fabbricanti di Occhiali). Se ne trova menzione in vari documenti, tra cui un manoscritto sassone del X secolo, ed è simbolo di Londra nell’Enrico VI di Shakespeare (Atto II, scena VI), quando Jack Cade, entrato a Cannon Street, batte il bastone del comando sul masso e proclama:”… E assiso qui, sulla Pietra di Londra, decreto, impongo ed ordino che, a spese delle casse comunali, la fontana di piazza del mercato getti non acqua, ma vino chiaretto per tutto il primo mio anno di regno.”
La pietra compare, con il nome di “Londinium Stonne” nella più antica mappa incisa di Londra (1559). Localizzabile più o meno nella stessa zona della mappa, dal XVII secolo, la pietra ha cambiato sede varie volte, passando, ad esempio, dalla parete sud della chiesa di St Swithin, alla Guildhall, fino, in tempi recenti, al piano stradale di un blocco di uffici, al 111 di Cannon Street, dove giaceva seminascosta e, per la maggior parte, ignorata, da una griglia di metallo.
Ultimamente l’edificio è in demolizione (per far spazio ad un nuovissino blocco di uffici, che prevede un plinto per accogliere la pietra), e così la London Stone si può osservare più da vicino, in una teca del Museum of London. Calcinata dalle fiamme del Grande Incendio, scampata al Blitz, vessata dalle intemperie e dall’inquinamento, nonché scheggiata qua e là, la pietra è un simbolo indistruttibile della storia di Londra.La leggenda, infatti, vuole che, finché la London Stone è ben protetta, il futuro della città sarà assicurato.
Campi di Lavanda vicino Londra
In queste giornate di effimera estate inglese, è possibile trovare un angolo di Provenza a meno di quindici miglia dal centro di Londra.Mayfield Lavender Farm è un campo di lavanda, che occupa una superficie di dieci ettari, nei pressi di Banstead, in Surrey. Ci si arriva comodamente in treno o in autobus, da Croydon.
Il lavandeto nasce da un’idea di Brendan e Lorna Maye, inizialmente con lo scopo di resuscitare una linea di profumi e saponette dell’azienda per cui lavoravano, Yardley of London, attiva dal 1770. Yardley ha finanziato il campo di lavanda fino al 2005, in seguito, i coniugi hanno proseguito in proprio, aprendo anche un negozio, dove vendere prodotti, dai saponi, agli oli essenziali, dai profumi alle marmellate, tutto esclusivamente a base di lavanda.
Il campo è in piena fioritura per circa dieci settimane, tra giugno e settembre, con il picco tra metà luglio e inizio agosto. La lavanda è coltivata biologicamente e le erbacce sono eliminate rigorosamente a mano.
Il lavandeto è aperto al pubblico (ingresso: una sterlina) e c’è anche un bar dove rifocillarsi, o assaggiare delizie alla lavanda prodotte dall’azienda, tra cui muffins, limonata e gelato.
Il momento migliore per la visita è di mattina presto (Mayfields apre alle 9:00), quando ci sono pochissimi visitatori e tra i cespugli si aggirano api indaffarate. Ci si può allora perdere nell’azzurro violaceo dei fiori, immersi nel loro inebriante e rasserenante profumo.
I 350 anni del Grande Incendio di Londra
Nelle prime ore del 2 settembre 1666, complici un’estate secca e un vento molto forte, dal forno della panetteria di Thomas Farriner, in Pudding Lane, si sprigionò uno degli incendi più distruttivi nella storia dell’Europa occidentale.Il Museum of London, in occasione dei 350 anni da quel terribile evento, ha messo in mostra una rievocazione interattiva dell’Incendio e delle sue conseguenze.
L’esposizione è pensata sia per gli adulti che per i bambini, affiancando a dipinti, manufatti, documenti e reperti archeologici, spazi accattivanti, dove maneggiare oggetti, provare costumi, immaginarsi architetti, combattere il fuoco per mezzo di un videogame ed osservare l’evolversi dell’Incendio grazie alla mappa proiettata su di un enorme pezzo di pane.
Pudding Lane, ricostruita virtualmente all’inizio della mostra, faceva parte di un reticolo di stradine e vicoli maleodoranti, con case di legno dalle facciate aggettanti, vicinissime l’una all’altra. Molti degli occupanti erano commercianti che trattavano merci infiammabili come pece, olio, canapa, lino, legname e carbone.
Dal sottofondo di suoni e rumori, si leva il crepitio sempre più forte e fragoroso delle fiamme, interrotto qua e là da commenti illustri, di chi fu testimone del momento, come John Evelyn e Samuel Pepys. Quest’ultimo ci racconta di vetro fuso dal calore, piccioni senza più ali in caduta libera, gatti malconci tratti in salvo dai camini, infermi portati via sulle loro brande, gente in fuga che salvava quello che poteva: forzieri, vivande, libri, virginali. Lo stesso Pepys scavò un buco in giardino, per salvare dalle fiamme bottiglie di vino, documenti e una prelibata forma di parmigiano! Gli scavi archeologici condotti a Pudding Lane e in altri luoghi della City, hanno restituito chiavi, uncini ed utensili fusi assieme dalle alte temperature, ceramiche bollite ed annerite dalle fiamme, materiali irriconoscibili, che si possono toccare, esplorare sotto le lenti di un microscopio, individuare ai raggi x.
I mezzi per spegnere l’incendio erano piuttosto rudimentali, si andava dai secchi ai bastoni uncinati, dalle pistole ad acqua alle botti di legno montate su ruote, antesignane delle moderne autopompe. Forse, la soluzione più drastica ed efficace, fu quella di far saltare in aria le case con la polvere da sparo, per tagliare l’avanzata delle fiamme. Tuttavia, il calare del vento, fu determinante e facilitò soldati ed ausiliari nell’opera di spegnimento.
Nonostante l’enorme portata della catastrofe, il Re Carlo II, il governo, la città e i londinesi stessi, reagirono con coraggio e pazienza, affrontando le perdite con spirito positivo. La seconda parte della mostra si concentra sulla ricostruzione, con una serie di documenti vari, tra cui proclami, piante, disegni, stampe e missive.
Una speciale legge emanata dal Parlamento (Rebuilding Act 1666) assicurò che la ricostruzione della città di Londra avvenisse secondo regole anti-incendio, con l’obbligo di utilizzare pietra e mattoni per case ed edifici. La città, nonostante progetti urbanistici ambiziosi e di vario genere, risorse più o meno seguendo il tracciato del tessuto medievale. Un secondo Rebuilding Act, nel 1670, prevedeva la ricostruzione di St. Paul’s e cinquantuno chiese. Christopher Wren, assistito da Robert Hooke ed altri architetti e mastri muratori, fu responsabile del progetto. Non solo il tessuto urbano, ma anche l’orizzonte della città cambiò significativamente, e vide il sorgere di una selva di torri e campanili, tutti diversi, oltre alla maestosa cupola della cattedrale. Questa nuova città fu molto ammirata dal dottor John Woodward, medico e antiquario, il quale, nel 1707, scrisse che il Grande Incendio, seppur disastroso, si era rivelato una benedizione sotto mentite spoglie.
Degli edifici post-incendio, purtroppo, oggi non ci rimane molto: alcuni furono demoliti dai vittoriani, moltissimi altri distrutti dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale. A memoria del Great Fire, restano il Monument, eretto per commemorare l’incendio, alcune sale delle Compagnie di Livrea, qualche sparuto edificio civile, ed una parte delle chiese progettate da Wren, tra cui, soprattutto, la magnifica cattedrale di St. Paul’s.
Marble Hill, un’elegante villa settecentesca
Nel XVIII secolo, poco più a ovest di Richmond, le rive del Tamigi consistevano di prati ed orti, qua e là punteggiati da piccoli villaggi, come quello di Twickenham. In queste zone, bucoliche e tranquille, da quando era stata stabilita la residenza reale di Hampton Court, era divenuto di moda, tra i nobili, farsi costruire ville di lusso, lontano dai miasmi e dal trambusto della città. Queste residenze erano facilmente raggiungibili via fiume. La barca, infatti, restava il mezzo privilegiato per chi non voleva subire il disagio delle strade di Londra e la tortura di lunghi e massacranti viaggi in carrozza.
Verso il primo trentennio del Settecento, in opposizione al barocco, cominciò ad affermarsi il gusto per un’architettura più semplice e lineare, ispirata allo stile classico di Vitruvio e ai disegni dell’architetto veneto Andrea Palladio. I suoi libri sull’architettura circolavano a Londra in edizioni economiche e gli architetti, quelli che potevano viaggiare, si recavano in Italia per studiare le sue opere dal vivo.
Non sorprende, dunque, se anche l’amante di re Giorgio II, Henrietta Howard, contessa di Suffolk, si fece progettare la casa da Colen Campbel, architetto fondatore del neopalladianesimo. I disegni realizzati da Campbel per Marble Hill differiscono dall’edificio costruito tra il 1724 e il 1729 per Henrietta. Molto probabilmente il progetto iniziale per la casa fu modificato per contenere i costi. Marble Hill House è una residenza molto fine, che, assieme alla vicina Chiswick House, in costruzione negli stessi anni, scatenò un vero e proprio entusiasmo per il palladianesimo, che divenne lo stile ‘georgiano’ per eccellenza, sia in Gran Bretagna che in America, soprattutto per le grandi tenute di campagna o delle ricche piantagioni.
Henrietta Howard, figlia di un baronetto del Norfolk, era rimasta orfana in tenera età ed aveva contratto un matrimonio infelice con il violento e dissoluto figlio del conte di Suffolk. Separatasi di fatto, e divenuta dama di compagnia della principessa di Galles, ben presto, con il beneplacito della padrona, assunse il ruolo di amante ufficiale del futuro re Giorgio II. Henrietta fu donna di grande personalità, che seppe circondarsi di amicizie importanti, come il poeta Alexander Pope, lo scritttore Jonathan Swift ed il drammaturgo John Gay. Henrietta, stanca di intrighi ed invidie, ed intuendo una certa freddezza da parte del regale amante, abbandonò la corte nel 1733 e si ritirò nella pace idilliaca di Marble Hill House. Fu in questo luogo, lontano dagli obblighi della vita ufficiale, che passò il resto della sua vita. Sappiamo che fu felicemente sposata al politico George Berkeley e che, in vecchiaia, strinse amicizia con Horace Walpole, il quale stava costruendo la sua villa neogotica, Strawberry Hill, dall’altro lato di Twickenham. Henrietta morì a Marble Hill nel 1767 e la sua casa passò a vari inquilini illustri, tra cui Lady Fitzherbert, amante (e moglie illegale) del futuro re Giorgio IV, ed il deputato Jonathan Peel, fratello del Primo Ministro, Sir Robert Peel. Dilapidata e poi abbandonata, alla fine dell’Ottocento Marble Hill rischiava la demolizione. Fortunatamente, la strenua opposizione dei residenti ed una legge ad hoc del Parlamento, promulgata nel 1902, fece della tenuta e della villa un’area protetta ed aperta al pubblico.
La villa, tuttavia, dovette attendere fino al 1965 per essere restaurata e riportata all’antico splendore settecentesco. English Heritage, che la gestisce dal 1986, ha in seguito recuperato parte dell’arredamento originario, come i paraventi di lacca cinese, i tavoli dal gusto esotico, le belle tele con i capricci di Giovanni Paolo Pannini e una serie di pregiati ritratti, tra cui quello di Henrietta, commissionato da Alexander Pope e dipinto da Charles Jervas, nel 1724.
La dama appare vestita semplicemente, priva di gioielli e con i capelli sciolti, a simboleggiare una donna della ragione nell’età del razionale palladiano. Ma, proprio come l’interno della sua casa, pieno di colori e cineserie, la semplicità dei modi di Henrietta, patrona delle arti ed intellettuale di talento, fu animato da vivacità ed esotismo.
Nature morte olandesi a Londra

Jan Van Huysum, “Vaso di vetro con fiori, papavero e nido di fringuello” (dettaglio) – 1720-21 (acquisizione X9134) – The National Gallery
Oggi vi consiglio (se già non lo avete fatto) una visita alla piccola, ma esaustiva mostra di nature morte olandesi, attualmente alla National Gallery. Dutch Flowers è totalmente gratuita ed è la prima rassegna del genere allestita nel Regno Unito negli ultimi vent’anni. L’esposizione affianca opere della collezione del museo a prestiti privati. I 22 quadri, tutti eccellenti, sono disposti su tre pareti, corrispondenti alle tre fasi evolutive della pittura botanica olandese.
Le prime composizioni floreali sono disposte simmetricamente, affiancando idealmente fioriture di diverse stagioni. Ogni fiore è colto singolarmente, per poterne ammirare meglio le qualità, così come gli insetti che popolano il quadro. Siamo nel primo quarto del XVII secolo, quando i gentiluomini olandesi si dilettavano nello studio della botanica, scambiandosi idee, semi e bulbi, e cercando di ibridare nuove, magnifiche specie. I tulipani erano costosissimi, alcuni bulbi potevano arrivare a costare cifre esorbitanti. I quadri di questa sezione sono dunque lezioni di botanica ideale, in cui si esprime la bravura del pittore, il prestigio del committente e, sempre, un accenno alla vanitas, alla caducità delle cose terrene: petali appassiti, piccole gocce di rugiada, fragili uova in nidi di piume e di muschio, frutti guastati da volatili o insetti.
Gli esempi di questa prima sezione vanno dalla composizione magistrale di Jan Brueghel il vecchio, ai fiori in un bicchiere di Roelandt Savery (1613), ai saggi di bravura di Ambrosius Bosschaert il vecchio, che, su lastra di rame, dipinge un vaso di fiori incorniciato da una nicchia, sul cui bordo riposa una farfalla. Il tema verrà ripreso da un suo allievo, Balthasar van der Ast, nel 1623. Il quadro, dal titolo “Narciso ed altri fiori in un Römer in una nicchia”, rimanda a Bosschaert per l’esecuzione dei tulipani e della farfalla, e ribadisce nell’iscrizione in basso, il tema della vanitas. Successivamente, verso la seconda metà del XVII secolo, i bouquet di fiori assumono un andamento asimmetrico e meno rigido, con una sovrapposizione di foglie e corolle più naturale. Ciò non toglie nulla ai virtuosismi, come il vaso di aquilegie e peonie dipinto da Dirck de Bray nel 1671.
Alla maestria nel rendere i fiori, si unisce il realismo con cui sono rese le venature del tavolo di marmo e il dettaglio della coccinella.
Tra i maestri del secolo d’oro, sono in mostra anche due opere della pittrice Rachel Ruysch.
Nata a L’Aia, nel 1664, crebbe ad Amsterdam, dove suo padre, Frederik Ruysch, anatomista, collezionista e professore di scienze naturali, era direttore dell’orto botanico di quella città. Rachel fu allieva di Willelm Van Aest, maestro di Delft, e le sue composizioni floreali si distinguono per la tavolozza sofisticata e un uso drammatico delle curve e delle diagonali.
Tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, altro importante esponente della pittura floreale olandese è Jan Van Huysum. Le sue nature morte si distinguono per il realismo accentuato e
per la sapiente distribuzione di corolle, foglie, insetti e frutti. Appassionato di fiori fin da bambino, Van Huysum possedeva un giardino e si faceva rifornire dai vivai di Haarlem.
Nella natura morta dipinta nel 1720 tutti i dettagli, dal vaso di vetro, ai papaveri, al nido di fringuello intessuto di muschio, sono accuratissimi.
Più avanti, il pittore adatterà il suo stile ai gusti rococò e la sua tavolozza vertirà su colori più chiari e delicati. Esponente di quest’ultima fase delle nature morte olandesi è Jan Van Os, eccellente esecutore di fiori e frutti, che, nel 1773 e nel 1793, sottopose anche dei dipinti alla Society of Arts di Londra.
Ormai le nature morte sono in grande formato, con composizioni arditissime e decorative, in cui fiori e frutti gareggiano in equilibrio su rovine archiettoniche e vasi anticheggianti.
