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Pittori inglesi alla scoperta di Parigi

Christian Gennerat, Plan Routier (1819)

Christian Gennerat, Plan Routier (1819)

Nel 1820 la Parigi della Restaurazione non era quella dell’Impero.

Le strade avevano ripreso i nomi dati loro prima della Rivoluzione, cancellando così i periodi precedenti. La Restaurazione segnava anche l’avvento di un boom edilizio, che andava rimodellando la città con ampie strade, marciapiedi e lampade a gas, anticipando l’enorme programma di demolizioni del Secondo Impero (1852-1870).
La città era ancora in gran parte senza impianti fognari, con strade strette e tortuose, affollate di carri e carrozze. Erano state costruite migliaia di case, ma a nord-ovest di Parigi, dove vivevano le classi agiate.
Più di venti anni di guerra tra Francia e Inghilterra, brevemente interrotti da un anno di pace, in base al trattato di Amiens, avevano impedito ai viaggiatori ed artisti inglesi di visitare Parigi. Con la Restaurazione, la città divenne una meta irresistibile, ispirando i turisti provenienti da oltre Manica.

Richard Parkes Bonnington, L'Institut (1828) © Cecil Higgins Art Gallery, Bedford

Richard Parkes Bonnington, L’Institut (1828) © Cecil Higgins Art Gallery, Bedford

Una bella mostra alla Wallace Collection, grazie agli acquerelli, disegni e stampe di artisti inglesi come Turner, Girtin e Bonington, mette in risalto il fascino di Parigi tra il 1802 e il 1840. Nei plans routiers utilizzati dai viaggiatori nel 1819, il centro di Parigi è caratterizzato da un’alta densità urbana e dalla mancanza delle arterie che collegano la città odierna. La maggior parte degli acquerelli in mostra si ispirano alla vitalità dinamica e ai panorami della Senna. Possiamo facilmente immaginare Thomas Shotter Boys intento a dipingere la sua veduta dal Pont-Neuf; da questo punto, nel 1833, l’artista catturò gli imponenti edifici, le strade piene di vita e di commercio, e le lavandaie intente a fare il bucato lungo le rive del fiume. È interessante notare che, nello stesso anno, anche J. M. W.Turner dipingeva il Pont-Neuf con l’Île de la Cité, dalla sponda meridionale del fiume, rendendo le persone e le chiatte, l’acqua e i monumenti, con verve impareggiabile. Alcuni pittori, come David Cox, non potevano passeggiare a proprio agio in cerca di ispirazione. L’artista si era slogato una caviglia durante la sua unica visita a Parigi, nel 1829. Ciò nonostante, usciva in  fiacre, una carrozza a noleggio, fermandosi davanti ai luoghi interessanti e dipingendo porzioni affascinanti della città, fatte di pareti fatiscenti, strade polverose, vecchie chiese e insegne pubblicitarie di menù a prezzo fisso.
Disegnare o dipingere in una carrozza costituiva un’ottima soluzione, per chi versava in cattiva salute o voleva lavorare indisturbato. Nel 1828, l’ultimo anno della sua breve vita, Richard Parks Bonington, indebolito dalla tubercolosi, sedeva in una carrozza, realizzando schizzi preparatori per la veduta dell’Istituto di Francia. Alla Wallace Collection, si possono ammirare un bellissimo studio a matita, gessetto e tempera, accanto al lavoro finito.
Gli artisti inglesi non erano solo affascinati dalle strade, dai monumenti e dalla Senna, ma anche dai parigini.
L’architetto Ambrose Poynter, che visse a Parigi per alcuni anni, ci ha lasciato una serie di ‘Schizzi di figure “(c. 1835), divertenti e vivaci, in cui, tra carbonai e spazzini, si può notare una donna trasportare una pila di baguette,  caratteristico pane francese, lungo e sottile, che ancora oggi viene messo sotto il braccio dai parigini.

La mostra The Discovery of Paris: Watercolours by Early Nineteenth-Century British Artists, rimarrà aperta fino al 15 settembre, con ingresso gratuito.

A. Poynter, Sketches of Figures' (c.1835)  © Victoria and Albert Museum - London

A. Poynter, Sketches of Figures’ (c.1835) © Victoria and Albert Museum – London

 

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The Age of Elegance

IMG_2257Ely House è una grandiosa residenza cittadina, dagli interni eleganti, che ancora oggi conservano gran parte del loro stucchi originali. Costruita tra il 1772 e il 1776 per il vescovo di Ely dall’architetto Robert Taylor, la casa è sede, dal 2012, della prestigiosa ditta antiquaria Mallett e fa da cornice perfetta ai mobili e alle opere d’arte in vendita.
Grazie alla collaborazione speciale tra Mallett e Colnaghi, un’altra ditta antiquaria, specializzata nei grandi maestri della pittura, fino al 20 luglio, è possibile visitare la casa, riportata ai suoi antichi splendori di residenza cittadina del XVIII secolo, grazie ad una mostra dal titolo: The Age of Elegance: treasures from the 18th century town house.
Le stanze di questa bella residenza palladiana sono state decorate con mobili, suppellettili e dipinti databili dalla fine del Settecento al Regency (1795-1837) passando per lo Stile Impero continentale (1805-1814). Entrati nella casa, al piano terra, si può ammirare subito la ricca sala da pranzo, che nel XVIII secolo costituiva la stanza di ricevimento principale. Qui fanno bella mostra di sé mobili, oggetti dorati e dipinti importanti, come nature morte, capricci architettonici e quadri figurativi.  Le nature morte, in scala ridotta e con l’attenzione per il dettaglio propria dei pittori fiamminghi, si possono anche ammirare nell’anticamera, al piano superiore, a cui si accede dalla hall tramite una doppia scala di marmo, fiancheggiata da balaustre in ferro, ben modellate. I livelli superiori si articolano in ambienti più o meno grandi, dai saloni con i dipinti storici di scuola italiana e francese a stanze più intime, abbellite da piccoli quadri e suppellettili dorate, o rilucenti di specchi e vetri pregiati. Dai soffitti, pendono lampadari di raffinata fattura, da quelli francesi, stile impero, in bronzo dorato, ai magnifici candelabri in vetro molato dell’epoca Regency. Rifulgono di luce anche splendori di epoca più tarda, come il fantasioso lampadario in vetro rosso, bianco e oro, realizzato da F & C Osler nel 1870, e ammirabile all’ingresso. Ely House resta un perfetto esempio di residenza londinese settecentesca, e,  grazie a questa mostra evocativa, c’è molto da vedere e di cui stupirsi.

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L’immaginario sistematico di Nicholas Hawksmoor, in una mostra a Londra

Christ Church, Spitalfields ©Hélène Binet

Christ Church, Spitalfields ©Hélène Binet

Nicholas Hawksmoor (c.1661-1736) ha da sempre sofferto il privilegio di essere stato allievo e collaboratore di Sir Christopher Wren. Per molti anni, la critica ha sottovalutato le straordinarie capacità e l’inventiva di uno dei più raffinati architetti del Barocco inglese. Come se l’ala protettiva del maestro Wren si fosse tramutata in una lunga e pesante ombra,  Hawksmoor è stato spesso accusato di mancare di purezza architettonica, proprio per quei tratti che, invece, ne dimostrano il genio: la versatilità dello stile, i sapienti giochi di luce, geometria e scala, l’approccio né pedissequamente classicista né eccessivamente barocco. A differenza di molti suoi agiati contemporanei, Hawksmoor non aveva mai viaggiato in Italia. Tutta la sua conoscenza di forme e stili, l’aveva appresa dai libri. Era un massone e non disdegnava di attingere ispirazione da quegli elementi di architettura religiosa che gli paressero suggestivi. Dall’antico Egitto alla Grecia, dalle moschee al tempio di Salomone, è così che i suoi edifici si popolano di simboli elaborati: obelischi, piramidi, rosette, elementi pagani. L’eccentrico architetto fu artefice della costruzione di sei nuove chiese a Londra, nate per servire le periferie in espansione della città. Ognuno di questi edifici è diverso, ognuno unico nel suo genere. Tutti sono caratterizzati da campanili, le cui guglie sono disegnate in un fantasioso stile classicheggiante, e  tradiscono nei volumi l’interazione dinamica tra esterno ed interno, di impronta borrominiana.  Le chiese di Hawksmoor  hanno temperamento ed elevazione, tramutandosi in esperienze cinetiche e articolate. A volte, gli edifici nascono all’incrocio di strette viuzze, scorci barocchi generati per essere visti ed apprezzati, grazie ai movimenti limitati di chi è in strada; meraviglie che richiedono al pedone di soffermarsi a guardare in alto, e stupirsi, cosa purtroppo sempre più rara di questi tempi. Il contrasto architettonico si dirama in tutte le direzioni e prepara alla transizione da esterno a interno, mentre le guglie punteggiano il panorama della città, assurgendo a pietre miliari e punti di riferimento.

Alle Terrace Rooms di Somerset House, fino al 1 settembre, una mostra gratuita si concentra proprio sulle chiese di Nicholas Hawksmoor. L’esposizione vuole supplire alla mancanza di documentazione visiva e fornire al contempo un’analisi dell’opera di questo valente architetto, in chiave urbanistica. La mostra è stata curata da Mohsen Mostafavi, decano della Harvard University Graduate School of Design, ed espone il lavoro della fotografa di architettura Hélène Binet. Le suggestive immagini in bianco e nero, unite a modelli in resina elaborati al computer, tentano di reintegrare le chiese di Hawksmoor al tessuto cittadino, investigandone l’ideazione all’interno di un progetto urbanistico più ampio.

 

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Flora Londinensis: una mostra celebra i giardini della City

William Curtis - Flora Londinensis - 1777

William Curtis – Flora Londinensis – 1777

Quando si nomina la City, vengono subito in mente palazzi e moderni grattacieli, il cuore della finanza mondiale, nei cui ingranaggi si impigliano impiegati stressati e impegnati a far soldi, e strade brulicanti di macchine e pedoni, tutti di fretta sotto la serena imponenza del duomo di St. Paul’s. Eppure, questa zona è molto antica e, non solo cela moltissimi tesori architettonici di epoche passate, ma possiede circa 200 giardini di varie forme e dimensioni. Questi spazi verdi, in cui alberi, fiori e piante selvatiche attraggono uccelli e insetti diversi, offrono ai residenti e ai visitatori ristoro, calma, panchine dove leggere un giornale, fare la pausa pranzo o, se c’è, prendere il sole, nonché la possibilità di ascoltare concerti di musica nei mesi estivi. I giardini della City sono testimoni della storia di quest’area e racchiudono muri romani, vestigia medievali o resti di chiese barocche. Il più antico parco pubblico di Londra nacque proprio qui ed è il Finsbury Circus Garden, inugurato nel 1606, mentre, la maggior parte dei giardini, risale al periodo successivo al Grande Incendio (1666) o ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, quando rovine e devastazioni lasciarono spazi vuoti dove far crescere un fiore. Adesso, una bella mostra gratuita alla Guildhall Library, celebra le bellezze della Flora Londinensis, accostando materiali e argomenti diversi. Si accede allo spazio espositivo passando sotto una suggestiva installazione floreale creata da Rebecca Louise Law. Qua e là si ritrovano antichi strumenti da giardino, mentre le teche racchiudono oggetti e libri dell’antica organizzazione di giardinieri della City of London: The Worshipful Company of Gardeners.
Esistente già dal 1345, la compagnia fu riconosciuta da un editto reale del 1605, e per secoli operò come autorità di controllo sui prodotti coltivati e venduti nella City. L’istituzione, oggi, ha carattere caritatevole e promuove l’arte e la pratica del giardinaggio, l’orticultura e l’abbellimento degli spazi verdi della City of London. Inoltre, rifornisce la famiglia reale in occasioni speciali (memorabile il meraviglioso bouquet per le nozze di Lady D). La biblioteca storica della compagnia, ospitata alla Guidhall, raccoglie libri e manoscritti di valore antiquario, tra cui gli editti reali del 1605 e del 1616, volumi di orticultura del XVII e XVIII secolo, opere di luminari come Thomas Fairchild e John Tradescant e manuali di botanica e floricultura dei primi dell’ottocento, illustrati con maestria da Anne Pratt e Robert John Thornton.
Gli esempi più significativi di questo archivio, sono esposti in mostra, assieme ad oggetti ‘cerimoniali’ come le vesti del Maestro, la vanga d’argento e il calice Tradescant. Sempre nello stesso spazio, è possibile ammirare il lavoro dei City Gardens Team, la cui equipe di giardinieri contribuisce, durante tutto l’anno, a curare e mantenere i numerosi spazi verdi del comune. L’attività del team è stata immortalata in suggestive immagini in bianco e nero dalla fotografa Niki Gorick. I visitatori possono anche accedere ad un folto materiale illustrativo, con guide gratuite per esplorare il circuito di spazi verdi, giardini, parchi della City of London.

La mostra alla Guildhall rimarrà aperta fino al 26 luglio ed è accompagnata da un libro, commissionato per l’occasione, dal titolo ‘Where Soil Meets City – The Gardeners Who Transform the Square Mile’

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The Fan Museum

FanMuseum©LondonSE4Passeggiando per Greenwich, al n. 12 di Croom’s Hill, vi potete imbattere in un piccolo museo, unico nel suo genere, completamente dedicato all’arte del ventaglio. The Fan Museum, ospitato in una bella casa settecentesca, conserva oltre 2000 ventagli, collezionati con entusiasmo da Helene Alexander. Nelle due sale al pian terreno, è possibile ripercorrere la storia e le tecniche di manifattura di questo singolare strumento, un tempo simbolo di femminilità, comunicazione, ritualità e stile. Già utilizzato a corte e nelle cerimonie religiose ai tempi degli Egizi, dei Greci e dei Romani, il ventaglio, come lo conosciamo noi, proviene dall’Estremo Oriente. In antichità, i Cinesi utilizzavano ventagli circolari, montati su un’impugnatura di bambù; nel VII secolo, i Giapponesi inventarono il ventaglio pieghevole, che, importato in Cina, raggiunse poi l’Europa, tramite i traffici commerciali aperti dai Portoghesi. Il ventaglio, fu introdotto alla corte di Francia da Caterina de’ Medici e divenne uno strumento funzionale ed elegante, destinato a dame della classe superiore di tutta Europa. I motivi artistici delle pagine dei ventagli, si rifacevano a dipinti noti, e le montature erano spesso d’avorio. Non conosciamo i nomi degli artisti che dipinsero la maggior parte dei ventagli tra XVII e XIX secolo, perché, la fabbricazione e la decorazione di questi oggetti, nonostante fosse regolata da apposite corporazioni, non era considerata un’arte nobile, ma una semplice manifattura, che però poteva impiegare l’intervento di quindici persone diverse, per la realizzazione di un unico esemplare.  Le sale al piano superiore del museo, sono dedicate a mostre temporanee, che permettono l’esposizione di esemplari diversi.
Fino al 12 maggio 2013, si possono ammirare dei bellissimi ventagli, per la maggior parte di manifattura inglese, francese e spagnola, creati nella prima metà dell’Ottocento.  The Fan In Europe: 1800-1850, illustra in modo affascinante, un periodo spesso trascurato nella storia del ventaglio.
In Europa, nelle prime decadi del XIX secolo, si assiste ad un cambiamento significativo nelle dimensioni e nei materiali utilizzati per i ventagli. Le Guerre Napoleoniche spopolano le botteghe artigiane e riducono la disponibilità di avorio, tartaruga e gemme preziose, inducendo i fabbricatori di ventagli all’utilizzo di elementi meno sontuosi, come stecche di osso e lustrini. I temi decorativi, però, testimoniano i gusti e le tendenze di un’epoca. Si va dai piccoli, ma elegantissimi ventagli Regency e Stile Impero ai modelli degli anni ’20, abbelliti da trine ogivali, di sapore gotico, passando dalla rappresentazione di soggetti desunti dalle opere di Rossini o ritratti dei cantanti più in voga, fino alle decorazioni romantiche dei ventagli franco-spagnoli.

Sul retro del museo, ogni martedì e sabato, è possibile, su prenotazione, accomodarsi nella suggestiva Orangery, con vista sul piccolo giardino, per gustare un tradizionale afternoon tea, accompagnato da scones, panna, marmellata e buonissime torte fatte in casa. Tra le varie attività, ogni primo sabato del mese, il museo organizza anche un corso di fabbricazione di ventagli, per riscoprire questa illustre tradizione e passare un pomeriggio all’insegna della creatività.

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Pompei ed Ercolano al British Museum

casadelbraccialedoroGrazie ad una stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, al British Museum si inaugura una mostra straordinaria, che, attraverso oltre 250 oggetti, frutto di scavi antichi e recenti, molti dei quali, mai usciti dall’Italia, si propone di raccontare la vita quotidiana dei romani nel 79 d.C. A differenza di altre esposizioni, tutte incentrate sulla visione catastrofica dell’eruzione e delle morti senza scampo, il progetto espositivo del British Museum ricostruisce usi e costumi degli abitanti di Pompei ed Ercolano, prima che le loro vite fossero spazzate via e tutto rimanesse sepolto nell’oblio e nella cenere, per oltre 1600 anni. La mostra, corredata da materiali audiovisivi, ha carattere immersivo: si passa  dalla strada, con le botteghe, i termopoli e le osterie, ai magnifici ambienti di una domus, con l’atrio imponente, il cubiculum nascosto, l’arioso giardino, il tablinum e persino i servizi (culina e latrina). Gli oggetti sono disposti ad hoc e così veniamo a sapere che, nelle due cittadine, dove il 10% della popolazione, di discendenza greca o sannita, era composto da nobili, mentre la gran parte degli abitanti erano schiavi o liberti, la gente spesso si fermava a mangiare fuori casa, condendo il pasto con una salsa a base di avanzi di pesce fermentato (garum), tanto in voga come oggi il nostro ketchup, venduta in speciali anforette, e pubblicizzata da panneli di mosaico. Chi si recava all’osteria, lo faceva per incontrarsi, bere, e giocare a dadi nel retrobottega. Spesso, i fumi dell’alcol infiammavano gli animi e si veniva alle mani, come ci dimostra il colorito affresco proveniente dal Thermopolium di Salvius. Le classi agiate, vivevano in case lussuose e spaziose. Molti degli oggetti in mostra, provengono dalla casa di Lucius Caecilius Iucundus, un banchiere. L’erma, di età augustea, ci riporta, in maniera veritiera ed espressiva, le fattezze dell’avo, con le rughe profonde, la verruca sul naso e lo sguardo furbo e inquisitivo. Dalla stessa casa, proviene anche un rilievo, che ci mostra come la città di Pompei fosse già stata gravemente danneggiata dal terremoto del 62 d.C. Nell’oscuro cubiculum, si possono ammirare gli affreschi erotici con cui l’argentarius Iucundus aveva abbellito il cortile e il tablinum della sua dimora. I romani non avevano tabù, il sesso faceva parte dei cicli naturali della terra e degli animali. Infatti, si adorava il dio Priapo, dal grande fallo, simbolo di fertilità, e ogni anno si celebravano i Lupercalia, in onore del dio Pan, anch’esso simbolo di fertilità, protettore di messi ed alimenti, che qui vediamo unirsi ad una capra, in una raffinata scultura, già oggetto di grande scalpore. Chi aveva le possibilità, passava il tempo circondato da suppellettili preziose. Specchi d’argento, fiale di vetro, spille per capelli in avorio, monili d’oro, recipienti in bronzo mirabilmente cesellati, vasellame pregiato. Dalla casa di Inachus e da quella delle Nozze d’Argento, provengono dei servizi, che, con le loro forme voluttuose ed eleganti, hanno conquistato anche le nostre tavole, in repliche neoclassiche e a seguire. Il vasellame d’argento, esposto al British Museum, comprende anche un bellissimo cantharus, decorato da centauri.  La filosofia dell’epoca era quella di stampo epicureo, per cui la felicità è piacere o assenza di dolore, e, poiché il tempo fugge e la morte è sempre in agguato, bisogna vivere il presente, confidando il meno possibile nel domani. Il motivo del carpe diem trapela lungo tutto il percorso espositivo. L’hortus è un luogo di ristoro e meditazione, e, la stanza adiacente al giardino, è decorata con scene di vegetazione lussureggiante, all’interno della quale orioli gialli piluccano bacche, usignoli si nascondono tra le fronde, piccioni di bosco e gazze ladre svolazzano tra i rami. L’affresco, proveniente dalla Casa del Bracciale d’Oro, è una delle più straordinarie pitture murali del mondo antico, con i colori perfettamente conservati. Anche i graffiti murali citano il poeta Lucrezio, seguace dell’epicureismo. Si è trovato l’incipit del secondo libro del De Rerum Natura (Suave mari magno), ma il carpe diem assume anche significati più basilari, come la firma degli amanti incontratisi nella notte, o sulla panca del giardino (Ephaphroditus cum Thalia hac). Più in là, nella sala da pranzo, i commensali consumavano il banchetto circondati dal lusso, dai sapori esotici di datteri, miele e lingue di fenicottero, e dal ritratto ironico della morte, anch’essa tra gli invitati, in un mosaico bianco e nero,

Quella mattina d’estate del 79 d.C. la fine piombò rapida e impietosa su Pompei ed Ercolano. L’eruzione del Vesuvio si articolò in due fasi: la prima vide la caduta di pomici bianche e grigie; la seconda alternò la fuoriuscita di nubi ardenti e colate piroclastiche. Chi fuggì terrorizzato nell’oscurità soffocante di ceneri e gas, portò con se quello che ritenne più opportuno: l’incasso della giornata, i risparmi di una vita, le chiavi di casa, una lanterna, i ferri del mestiere, i gioielli più cari, l’immagine della dea Fortuna. Alcuni si dimenticarono di sciogliere il cane, altri pensarono di essere al sicuro nelle terme o nel cubiculum della propria casa. Molti, perirono prima di riuscire a mettersi in salvo, seppelliti da ceneri e tetti crollati, o inceneriti da gas bollenti. Nelle ultime sale, la morte è un grido pietrificato, e il gesso e la resina, fissando tuniche scomposte e membra piegate dallo spasmo, raccontano gli ultimi, terribili istanti di Pompei ed Ercolano.

Life and Death in Pompeii and Herculaneum
dal 28 Marzo al 29 Settembre 2013
The British Museum
Great Russell Street, London, WC1B 3DG

Alla mostra si accompagna un fitto ciclo di conferenze, con interventi di archeologi, vulcanologi, latinisti, storici e antropologi, tra cui Mary Beard, già autrice di un documentario, proprio su Pompei (BBC 2 – 2012).

E’ anche possibile scaricare un eBook GratuitoThe Treasures of Pompeii & Herculaneum  a cura di: Mary Beard, Alastair Smart, Joanne Berry, Alex Butterworth, Ray Laurence, Bee Wilson, Tim Auld & Andrew Wallace-Hadrill

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John Snow, storico e moderno dell’Epidemiologia

John Snow ©LondonSE4John Snow (del quale, il 15 marzo, si celebra il bicentenario della nascita) fu un medico inglese all’avanguardia, tra i primi a studiare e calcolare i dosaggi per l’uso di anestetici chirurgici (fu lui a somministrare personalmente del cloroformio alla Regina Vittoria, in occasione dei suoi ultimi due parti). Inoltre, per essere riuscito ad individuare l’origine di un’epidemia di colera a Soho, nel 1854, è anche considerato uno dei padri della moderna epidemiologia. Snow fu sempre scettico nei riguardi dell’allora dominante teoria del miasma, secondo la quale, malattie come il colera o la peste bubbonica, erano causate da inquinamento o “aria nociva”. Il medico inglese, stilando una mappa dettagliata dei casi di colera intorno alla pompa dell’acqua pubblica di Broad Street (oggi Broadwick Street), aveva potuto dimostrare che la Southwark and Vauxhall Waterworks Company stava distribuendo a Soho acqua infetta, prelevata da sezioni del Tamigi inquinate da acque reflue. Nel 1855, in seguito alla sua indagine, Snow scrisse un saggio sul colera, includendovi le statistiche utilizzate per illustrare il collegamento tra la qualità dell’acqua e i casi di colera.
Da oggi, fino al 17 aprile, la London School of Hygiene & Tropical Medicine, ospita una mostra gratuita, per celebrare il lavoro di Snow nel campo delle malattie e della salute pubblica.  Documenti storici provenienti da diverse istituzioni (tra cui LSHTM, Wellcome Library, Museum of London e i Metropolitan Archives), vengono esposti per la prima volta, a fianco di opere d’arte contemporanea, commissionate ad hoc, in un interessante percorso, volto a far luce su come la morte e la malattia siano state registrate nei secoli, e come, l’applicazione della cartografia, abbia sostenuto la necessità di comprendere le epidemie in maniera scientifica. La mostra è accompagnata da un fitto programma di conferenze, eventi e proiezioni.

Inoltre, a Soho, dal 13 al 16 marzo, sarà possibile visitare il Museum of Water. I visitatori sono invitati a donare recipienti di acqua per ampliare la collezione e potranno bere un bicchiere d’acqua, proveniente dalla fonte di Broad Street(!), nel Water Bar estemporaneo. Conferenze e dibattiti giornalieri sul tema dell’acqua si avvicenderanno intorno alla vicina Memorial Pump.

Per saperne di più:

Welcome to the John Snow Society

http://www.quadernodiepidemiologia.it/epi/storia/colera.htm

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Barocci, chi era costui?

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Nel 1523, i duchi della Rovere decisero di trasferire la corte da Urbino a Pesaro, condannando la città natale di Raffaello, culla del rinascimento ‘matematico’, della prospettiva teorizzata da Piero della Francesca e delle buone maniere dei gentiluomini, elencate dal Castiglione, ad un lento, inesorabile declino. Urbino era ancora un centro raffinato, seppur periferico, quando Federico Barocci vide la luce, nel 1535. Nato in seno ad una famiglia di artisti, astronomi ed orologiai, Federico mostrò da subito grandi doti nel disegno. Ispirato da Raffaello, si recò a Roma, dove potè ammirare le opere di Michelangelo e ricevere la sua approvazione. Nella città eterna, la carriera di questo promettente artista, aderente alla Controriforma, fu assai rapida e di successo e, forse, proprio quest’ultimo gli procurò invidie e nemici. Nel corso di una scampagnata, nel 1563, il Barocci per poco non rimase ucciso dal veleno, servitogli nell’insalata. Sopravvisse all’attentato, ma la sua salute non fu più quella di prima e fu sempre tormentato da violenti dolori di stomaco. Minato nel corpo, fece ritorno ad Urbino, dove poté condurre una vita dignitosa, lavorando per ricchi committenti, ordini religiosi e il duca Francesco Maria della Rovere II. Nella tranquillità della sua città, lontano dagli intrighi e dalla competizione degli ambienti romani, Barocci disegnava e dipingeva seguendo il suo ritmo e le proprie inclinazioni.  I bellissimi disegni, studi e schizzi dal vivo, realizzati a gesso, carboncino e pastello, costituivano parte integrante del suo metodo di lavoro; ammirati dai contemporanei, furono ricercati ed apprezzati dai posteri. Nei numerosi schizzi, l’artista si soffermava sulle luci, i gesti, la composizione e le forme di piedi e mani; i dipinti giunti fino a noi, al confronto, non sono molti, ma sortiscono l’effetto desiderato, mostrando un dinamismo e una tavolozza pittorica, che fanno del Barocci  il ponte ideale tra Rinascimento e Barocco.  Una mostra imperdibile, già allestita al St Louis Art Museum, e ora approdata alla National Gallery, con l’aggiunta di opere dall’Italia, che, per la loro fragilità, non avevano potuto affrontare il viaggio oltreoceano, dà la possibilità di scoprire (o riscoprire) questa personalità proto-barocca.
Il manierismo del Barocci si risolve in accostamenti cangianti di verdi mela, rossi squillanti, rosa esuberanti, azzurri carichi e gialli acidi. Una tavolozza stupefacente, che fece proseliti e tanto ispirò gli artisti dei secoli successivi, ma che, mista all’estasi religiosa, piacque poco agli inglesi (l’unica opera ad essere custodita in una collezione pubblica del Regno Unito, è ‘La Madonna del Gatto‘, 1575, alla National Gallery).
L’arte del Barocci è fortemente emotiva, le pennellate raccontano storie che somigliano a fiabe, e i tratti di matita e pastello fanno emergere volti e forme dalla carta, come se fossero dietro uno specchio d’acqua. Le scene religiose, pur pervase da fervore ed estasi, lasciano sempre spazio ad elementi di sorprendente verismo. Mirabili, nell’Ultima Cena, le nature morte dei piatti di ceramica a lustro e il cane assetato, che lambisce l’elaborato bacile, oppure le tenaglie e la corona di spine della Deposizione, le gallinelle nel paniere, sulla soglia della Visitazione, o, ancora, il gattino acciambellato sulla sedia, nell’Annunciazione. Gli ambienti sono stanze rinascimentali, forse proprio quelle del palazzo ducale, e Urbino, con le sue torri e le colline, è sempre presente, sullo sfondo o fuori dalla finestra.

Barocci: Brilliance and Grace
alla National Gallery, fino al 19 maggio 2013

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Senza Trucco

Marcus Gheeraerts the Younger, Portrait of Elizabeth I  (c. 1595). Courtesy of Elizabethan Gardens of North Carolina.

Marcus Gheeraerts the Younger, Portrait of Elizabeth I (c. 1595). Courtesy of Elizabethan Gardens of North Carolina.

l ritratti di Elisabetta I d’Inghilterra sono affascinanti, in quanto mostrano l’evolversi dall’elaborazione di elementi somiglianti e il più possibile naturali, ad un immaginario complesso, tripudio di simboli iconografici che trasformano il ritratto in un messaggio di potere. Gli oggetti simbolici, che ai posteri sembrano semplicemente un tappeto decorativo, ma il cui messaggio non poteva passare inosservato ai contemporanei dei ritratti, sono rose, libri di preghiera, globi, corone, spade e colonne, lune e perle. Si allude, tramite l’apparato altamente decorativo, alla monarchia, all’impero, al sovrano come capo politico e religioso, alla purezza e maestà della Virgin Queen. L’effigie della regina divenne oggetto di devozione e venerazione, un culto dell’immagine creato per sostenere l’ordine pubblico, e per rimpiazzare certe manifestazioni esteriori della religione pre-Riforma, dove immagini sacre accompagnavano, processioni e cerimonie.  Un proclama era stato emanato per il controllo delle immagini della sovrana. Tutti i ritratti, non fedeli o offensivi, dovevano essere distrutti, e solo quelli approvati dal Queen’s Sergeant Painter potevano essere messi in circolazione.
Fa dunque scalpore, in questi giorni, l’avvenuta identificazione di un ritratto di Elisabetta I, ormai sessantenne, ad opera di un rinomato artista della corte Tudor, Marcus Gheeraerts il Giovane. Nativo di Bruges, ma venuto in Inghilterra da bambino, al seguito del padre, anch’esso pittore, Marcus Gheeraerts fu introdotto e protetto a corte da Sir Henry Lee of Ditchley, responsabile di uno dei ritratti più celebri di Elisabetta I, ora alla National Portrait Gallery.
Gheeraerts fu artista di successo, che seppe fondere precisione fiamminga a languore poetico, realismo borghese a fantasie aristocratiche, e rimase in auge, anche dopo la morte della regina. Il “nuovo” ritratto, di proprietà degli Elizabethan Gardens (North Carolina) e ora in mostra alla Folger Shakespeare Library di Washington DC, è unico nel suo genere, in quanto mostra la sovrana risplendente di gloria e gioielli, ma con il viso struccato, segnato da rughe e occhiaie. Nessun espediente per far apparire il volto di Elisabetta I giovane e levigato. Piuttosto, la volontà di trasmettere un senso di compostezza e grazia, al di là degli insulti del tempo.
Il raro dipinto di Gheeraerts, probabilmente realizzato intorno al 1590, fu acquistato negli anni Cinquanta dagli Elizabethan Gardens a Manteo, Carolina del Nord, per $ 3,000. Appeso nella portineria dei Giardini, il dipinto è stato restaurato e autenticato solo due anni fa. L’opera rimarrà in mostra alla Folger Library nell’ambito della rassegna “Nobility and Newcomers in Renaissance Ireland”  fino al 19 maggio.

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A Londra, è di scena la morte

gravedeathSt Pancras Parish Church è una chiesa neoclassica, costruita tra il 1819 e il 1822, sul lato sud di Euston Road. Progettato da William Inwood, con l’ausilio del figlio Henry, l’edificio è  uno dei più importanti del XIX secolo e fu realizzato in mattoni, terracotta e pietra di Portland.  Per la trabeazione, e gran parte della decorazione, gli Inwood si  ispirarono  all’Eretteo di Atene, cariatidi incluse.  La chiesa di St Pancras è, dunque, in pieno stile  greco. La cripta fu utilizzata per le sepolture dei ceti abbienti della zona, fino al 1854, quando  tutte le chiese di Londra furono interdette alle funzioni cimiteriali. Il luogo è ancora l’ultima dimora di 557 persone e, in  entrambe le guerre mondiali, fu utilizzato come un rifugio antiaereo.
Dal 2002 la cripta di St Pancras è diventata una galleria d’arte, che  ospita un programma annuale di mostre e fornisce uno scenario suggestivo per promuovere una grande varietà di opere.
Da non perdere, fino al 3 febbraio, Graveland, un’esposizione collettiva che, spaziando tra disegno, scultura, installazione, film, performance, artigianato e scrittura, esplora i cimiteri di tutto il mondo e il modo in cui si ricordano i defunti. La mostra, a carattere partecipativo, invita il visitatore a contribuire alla riflessione su un tema che, scaramanticamente, viene spesso ignorato o respinto, e che qui si affronta in uno spazio suggestivo, accogliente, e rispettoso.

Ma che cosa c’è da dire sulla morte? Sappiamo che accadrà, ma, ovviamente, preferiamo non pensarci, almeno finché non è necessario. In verità, la morte permea tutta l’arte perché, come nella vita, è sempre con noi. Lo sa bene Richard Harris, ex mercante d’arte di Chicago, che ha passato gli ultimi 12 anni della sua esistenza a raccogliere oggetti legati al sonno eterno. Tutto ha avuto inizio con l’acquisto di una bella natura morta olandese, raffigurante un teschio, cinto da una corona d’alloro, e circondato da gioielli, articoli di lusso, calici, e un vaso di fiori lussureggianti. Da questo acquisto, scaturisce la passione di Harris per i memento mori, le scene di vanitas, e tutta un’iconografia, a volte ripetitiva,  che, tra ossa e apparati funebri, cerca di dare un volto alla morte. Ma a che cosa somiglia quest’ultima?
Una signora elegante, un teschio avvolto da un mantello nero e con una falce in mano, un’ombra alla finestra, una clessidra…? Tutti gli artisti presenti in Death: A Self Portrait, mostra in programma alla Wellcome Collection, sembrano decisi a darle un volto. La morte, tuttavia, ha orbite vuote e manca di personalità. Che pesi le anime con una bilancia o che livelli, indifferente, i destini di ricchi e poveri, essa costituisce l’unico evento certo nel ciclo della vita. Come scrisse Oscar Wilde, ‘il più grande messaggio dell’artista è farci comprendere la bellezza della disfatta’.