Questa settimana si celebrano i 50 anni dall’uscita del primo singolo dei Beatles. Pubblicato il 5 ottobre 1962 per l’etichetta Parlophone, e salito al diciassettesimo posto in classifica, dopo una promozione quasi nulla e una fugace apparizione televisiva, Love Me Do è un motivetto facile, da cui si venne a scatenare una rivoluzione musicale e culturale senza precedenti. A Liverpool, città natale del quartetto, ci si appresta dunque a festeggiare per tutto il weekend, con una riunione di massa di fan e amanti della musica dei Beatles, nonché un nutrito programma di eventi, tra cui un mega concerto all’Albert Dock, che vedrà l’alternarsi di gruppi rock e corali. A Londra, invece, si è pensato ad organizzare un musical, “Let it Be“, in cartellone al Prince of Wales theatre. E’ la prima volta che ad un teatro del West End vengono concessi i diritti di esecuzione delle musiche dei Beatles e, tra gli artisti che impersonano i Fab Four, compare anche un italiano, Emanuele Angeletti, nel ruolo di Paul McCartney. La BBC2, il 6 ottobre sera, trasmetterà per intero il film “The Magical Mistery Tour” (1967), assieme ad un documentario che ne esalta il valore culturale ed i meriti artistici. Proprio in questi giorni, infatti, circola un filmato inedito, realizzato dietro le quinte, durante una pausa di realizzazione del film. In queste riprese, i Beatles e il cast si concedono uno spuntino da Smedley’s, un negozio di fish & chips situato a Taunton, in Somerset. Le scene ritrovate, ritraggono la band pazientemente in fila per la propria razione di pesce e patatine, e catturano la stessa aria spensierata e vagamente avant garde del film. Il video si può vedere online, sul sito di The Space, contenitore di arte e musica creato dalla BBC e dall’Arts Council. Il progetto prevede l’accesso del pubblico ad un archivio oltre 500 filmati diversi, organizzati secondo i piani di un hotel virtuale.
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Per chi suona la campana
E’ una serata particolare, per vari motivi. Innanzitutto, ha fatto molto caldo, e, fino a tardi, la gente è rimasta in strada, fuori dai pub e dai ristoranti, a bere, mangiare, chiacchierare, godersi gli ultimi raggi di sole, rumorosa e vivace, in maniche corte, calzoncini e infradito. In questi giorni, migliaia di comparse, volontari e spettatori si sono riversati a Stratford per le prove generali della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici. Prove al millesimo, inclusi fuochi d’artificio, impatto elefantiaco della folla sulla rete dei mezzi pubblici, e strade ridisegnate, con le corsie preferenziali per i veicoli olimpici. Al tempo stesso, la fiaccola è stata portata in giro per la città, a nord e a sud del fiume, tra ali di folla, beneficiando di un clima davvero clemente. E domani, è il grande giorno: l’inizio ufficiale dei Giochi Olimpici 2012. Il mattino, un mattino in apparenza come gli altri, sorgerà nella City e nel Regno Unito, accompagnato dal suono all’unisono di migliaia di campane. La nuova installazione sonora di Martin Creed, commissionata per una giornata non ordinaria, si intitola ‘Work No. 1197″ e consta di ben 3 minuti di rintocchi collettivi, dai 40 del Big Ben (che non rompeva la sua routine oraria dal lontano 1952) a quelli forniti dalle migliaia di anonimi partecipanti, che si muniranno, per l’occasione, di campane e campanelli di varie fogge e misure. La performance avrà inizio domani, alle 8.12. Ci si può registrare su “All The Bells” e unirsi all’evento in veste di performer; qualsiasi strumento (dal campanello di casa, a quello della bicicletta, alla suoneria del cellulare, fino ai toni scaricabili dal sito web), può andare bene. Non mi resta, dunque, che decidere di svegliarmi più presto del solito, e andare a sentire le campane di St. Paul’s dal Millennium Bridge. Oppure. potrei poltrire più a lungo, e aspettare di essere svegliata dal baccano di entusiaste reclute scampanatrici in SE4 (invece del solito camion della spazzatura). O ancora, sintonizzarmi sulla BBC, mentre sorseggio il caffè e imburro il toast, e seguire comodamente l’evento in streaming, TV o radio. Comunque vada, e qualsiasi decisione io prenda (pigrizia docet), farò parte di una vasta audience. Ormai, non si può più fare finta di niente: The chimes are up, the chips are down…
Il mondo è un palcoscenico
E’ di questi giorni la notizia ufficiale (dati alla mano, desunti dall’ultimo censimento) che la popolazione di Londra ha raggiunto gli 8 milioni di abitanti, con una crescita del 12 per cento nell’ultimo decennio. Questi dati, a seconda delle prospettive e degli orientamenti politici, possono essere letti in misura più o meno allarmante. Tuttavia, la popolazione di Londra non e’ certo nuova a queste fluttuazioni. La città ha da sempre attratto migranti, creando una forte domanda di beni e servizi. A partire dal secolo XVI, questa crescita ha avuto un impatto significativo sull’economia monetaria e Londra ha svolto un ruolo importante, trasformandosi nel centro predominante della vita politica e sociale inglese. Sotto il Regno di Elisabetta I, la città subì una drammatica trasformazione, e la popolazione crebbe del 400% (!), raggiungendo le 200.000 unità. Tra i vari emigranti giunti a Londra tra il 1588 e il 1592, si trovava anche un attore e sceneggiatore di talento, originario di Stratford-upon-Avon. William Shakespeare, non solo seppe fare una rapida e brillante carriera (nel 1594 lavorava a corte, per the Lord Chamberlain’s Men), ma la sua compagnia teatrale divenne la più seguita in città. La mole di lavoro che Shakespeare ha lasciato ai posteri non è solo rimasta in auge per oltre 400 anni, ma ha contribuito a creare un’identità nazionale e ad arricchire la lingua inglese di oltre 3000 parole. Il teatro Elisabettiano era l’equivalente di quello che oggi rappresenta per noi il web. Il palcoscenico, con i suoi drammi e le commedie, apriva a nobili e popolani una finestra sul mondo, un mondo che da Londra e dall’Inghilterra si espandeva oltre, ai lidi dell’Italia e dell’Africa, fino alle propaggini dell’America. Al British Museum, i curatori Jonathan Bate e Dora Thornton, hanno ideato un modo affascinante per entrare nell’immaginario di Shakespeare, giustapponendo parole, testi e immagini. E, come le opere del grande autore hanno significati e associazioni diversi, così gli oggetti in mostra dialogano contemporaneamente su più livelli.
Grazie a questa mostra, ci viene presentato ciò che era noto ai contemporanei di Shakespeare, sia a Londra che a Stratford, in quanto a questioni sociali, religiose e politiche. Il visitatore è accolto da una vivace immagine di Londra e dei suoi teatri, delle risse e dei giochi, dei mercati e delle vie fluviali. E’ in questa sezione che si trovano oggetti interessanti, tra cui la forchetta rinvenuta di recente, negli scavi del Rose Theatre. Ma questo è solo il preludio dell’esposizione. In quello che segue, i curatori mostrano come Shakespeare abbia usato quello che aveva osservato e appreso in campagna, a corte, o nelle strade di Londra, per evocare i mondi immaginati nelle commedie. Il palcoscenico diviene dunque un luogo altro, in cui il pubblico inglese può esplorare luoghi lontani, al di fuori della propria esperienza, e dove storie ambientate a Venezia o nell’antico Egitto, riflettono le ansie e i dilemmi di una nazione. Si va dal medioevo dei primi drammi scecspiriani, alla vita quotidiana raccontata nelle commedie, tra giardini, scienza e superstizioni, con forte caratterizzazione dei personaggi, per poi passare alle grandi tragedie, ambientate nell’antica Roma, in Egitto e nelle terre dei Celti. Agli oggetti provenienti da collezioni britanniche e internazionali, si affiancano brevi filmati, in cui gli attori della Royal Shakespeare Company recitano brevi brani, in modo da riportare in vita le opere in mostra. Simbolicamente, il percorso espositivo si apre e si chiude con un volume delle opere di Shakespeare. Il primo è il celebre tomo, prima edizione completa delle opere del Bardo, pubblicato nel 1623. L’altro, una raccolta economica stampata negli anni ’70, è aperto alle pagine del Giulio Cesare. Vi si nota come Nelson Mandela, durante i duri anni di prigione, sottolineasse il passaggio che recita: “I vigliacchi muoiono molte volte prima della loro morte. L’uomo coraggioso sperimenta la morte una volta sola.”
You’ve Come A Long Way, Baby
Chiunque si fosse trovato a Londra nel lontano luglio 1962, sarebbe rimasto abbastanza deluso dal tempo, non proprio estivo. La maggior parte del mese fu asciutto, seppur nuvoloso, ma la colonnina di mercurio difficilmente superò i 14°C. I giovani di allora, vestivano da adulti, con giacche, cravatte e vestiti un pò stazzonati, per lo più realizzati in materiali economici, ravviati da qualche sobrio accessorio o un paio di occhiali dalla montatura grande e spessa. I semi del cambiamento stavano però silenziosamente germogliando. Da qualche parte un Hendrix adolescente cominciava a strimpellare la chitarra e i Beatles, agli inizi di ottobre, avrebbero pubblicato il loro primo sigolo ‘Love Me Do’. I giovani dell’epoca erano ancora attirati da sonorità d’oltreoceano, come Jazz e Rock’n’Roll. La sera del 12 luglio 1962, una nutrita audience di poco più di un centinaio di persone, per la maggior parte di sesso maschile, si radunò in un locale, al numero 165 di Oxford Street. Il Marquee Club aveva aperto i battenti nel 1958 e si era subito segnalato come venue per concerti di musica jazz and rhythm & blues. Quella sera, come gruppo di supporto dei The Blues Incorporated, si esibì una band di giovani, chiamati Mick Jagger & The Rollin’ Stones. Christopher Sandford, biografo della band, ricorda che il cantante salì sul palco in giacca a righe e pantaloni di velluto a coste, mentre il chitarrista indossava un completo nero, abbastanza lugubre. Sembra che il gruppo, per calmarsi i nervi durante il concerto, ingurgitasse una cospicua quantità di brandy e whisky, mentre l’aria stantia del locale, si faceva sempre più acre di tabacco e sudore. L’esibizione andò in crescendo, con gli ultimi 15 minuti di musica eseguiti a ritmo serrato. L’incasso della serata ammontò a 5 sterline per ciascun membro della band, eccetto Brian Jones, che ricevette 6 sterline e 10 scellini. Poi, i Rolling Stones, uscirono dal Marquee, e se ne andarono a bere un drink o due al pub di fronte, che, tra l’altro, esiste ancora: il Tottenham, al n.6 di Oxford Street.
Per celebrare i 50 anni di successo dei Rolling Stones, Somerset House ospita una mostra gratuita, fino al 27 agosto 2012.
Punk’s Not Dead
Ora che i clamori per le celebrazioni in pompa magna del Giubileo Reale si sono sopiti e nei negozi le memorabilia e le scatole di biscotti con la Union Jack o l’effige della Regina vengono venduti in saldo, penso sia il caso di parlare di un altro anniversario, che non può essere disgiunto dagli eventi di questi giorni. Esattamente 35 anni fa, durante il Silver Jubilee, i Sex Pistols salivano alla ribalta della scena britannica con il controverso singolo dal titolo “God Save The Queen”. Confezionato in un’altrettanto iconica e controversa copertina, disegnata da Jamie Reid, il 45 giri si era piazzato velocemente all’apice della classifica delle vendite, sebbene fosse stato subito bandito dalla BBC e dall’Independent Broadcasting Authority, per le liriche offensive nei confronti della sovrana (a cui si imputava di far parte di un regime fascista e di non possedere nulla di umano). Il disprezzo dissacrante per l’istituzione monarchica e per il potere in generale, creò intorno ai Sex Pistols un’atmosfera di violenza. Il gruppo decise di “festeggiare” il Giubileo affittando una barca, la Queen Elisabeth, per suonare la canzone di fronte al Parlamento, ma l’imbarcazione fu bloccata dalla polizia a metà percorso e, nel caos più totale, vennero messe le manette al manager del gruppo, Malcolm McLaren, ed altri collaboratori, tra cui Vivienne Westwood. In questi decenni, John Lydon alias Johnny Rotten, ex cantante del gruppo, e la Regina, sono praticamente coesistiti in maniera inscindibile, come la testa e la croce della stessa medaglia celebrativa. Il punk britannico fu essenzialmente il prodotto di un periodo specifico e rappresentò il sintomo di una crisi. Un movimento difficile da definire, dove ideologicamete tutti erano contro tutti (i Clash contro i Sex Pistols, Johnny Rotten contro il resto della band, i punk americani contro quelli inglesi…). Ma una cosa è certa. Dalle ceneri del punk, bruciato rapidamente e gloriosamente, nacquero molte fenici, a partire da quella New Wave, di cui si percepisce l’eco ancora oggi, in tante band giovanili. E non solo. Molte tattiche di protesta usate dagli attivisti odierni, per esempio gli “indignados” con le tende di Occupy The London Stock Exchange, sono desunte dal movimento punk degli anni ’80, mentre, in paesi come la China o la Russia, il punk è ribellione, resistenza, lotta sotterranea. Molti simboli, sono stati inglobati dalla cultura visiva odierna: la copertina del disco dei Sex Pistols è ora in una mostra di ritratti della Regina, alla National Portrait Gallery; catene, borchie e creste non hanno più la valenza scioccante di un tempo. Tuttavia, il punk come sub-cultura, è sopravvissuto scalpitante fino a noi, nonostante le molte contraddizioni che lo contraddistinguono, e questo, non a causa di una sorta di nostalgia collettiva, ma in quanto seme e sinonimo di ribellione giovanile.
Barocco inglese
E’ iniziato ieri, con la magnifica esibizione di Jordi Savall e Le Concert des Nations, il Lufthansa Festival of Baroque Music. Dal 1984, ogni edizione permette agli amanti di musica antica di ascoltare composizioni barocche eseguite su strumenti d’epoca, nel cuore di Westminster. La sede principale dei concerti è la chiesa di St. John, in Smith Square, un gioiello dell’architettura barocca inglese, ambiente dall’acustica insuperabile. Mi piace arrivarci, se i cancelli sono aperti, passando per Dean’s Yard, una corte privata, facente parte dell’antico monastero di Westminster. Nascosto al traffico e alle migliaia di turisti che affollano la zona, il largo cortile incorpora alcuni edifici che, nelle versioni piu antiche, risalgono al medioevo. In fondo alla corte, l’arco a sud immette in Tufton Street, lungo la quale si può raggiungere agevolmente Smith Square.
La piazza, uno spazio contenuto e domestico, con grandi case settecentesche di mattoni rossi animate da bianche finestre a ghigliottina, sembra racchiudere a fatica la vasta chiesa quadrangolare di St John, un candido gigante fatto di scale, colonne, archi, cornici e quattro campanili di gusto borrominiano.
Le proporzioni esagerate dell’edficio, non erano piaciute a Dickens, che, nel suo ultimo romanzo (Our Mutual Friend), lo descrisse simile ad “un mostro pietrificato, spaventoso e gigantesco, steso sul dorso con le gambe in aria”. Tuttavia, la chiesa, oggi, non solo è considerata un capolavoro del barocco inglese, ma anche testamento della maestria e confidenza di Thomas Archer, unico tra i suoi contemporanei ad aver viaggiato in Italia e aver cercato di introdurre linguaggi continentali innovativi, desunti da Bernini e Borromini, nelle sobrie e lineari architetture britanniche. La passione di Archer per le superfici animate da muri concavi e convessi e frontoni spezzati, anche se inizialmente affascinò i ricchi committenti, nulla poté contro il gusto per le auliche semplicità Palladiane. Basta superare le porte della chiesa di St. John, per trovarsi in uno spazio d’avorio, quieto ed evocativo, illuminato da vetrate trasparenti e scandito da bianche colonne corinzie, su cui poggia una semplice volta a botte (ricostruita in stile, dopo che la chiesa venne pesantemente bombardata nell’ultima guerra mondiale). Candelabri fiamminghi, dai bulbi e bracci di ottone brunito, rischiarano la navata, mentre una tenda cremisi scende drammatica sul palco, scenario di virtuosismi, cambi di tempo, recitativi, che si credevano persi, e le dolci note della viola da gamba.
Record Store Day 2012
Quando ero ragazzina, c’erano solo due supporti musicali: nastro magnetico e vinile. Per procurarsi o conoscere nuova musica, oltre al mainstream radiofonico, esistevano mezzi che oggi risuonano obsoleti e laboriosi: oscure riviste, per la maggior parte in bianco e nero, passaparola, un amico arrivato dall’America o dall’Inghilterra, piccoli negozi nascosti in vicoli negletti o viaggi in autobus, che si trasformavano in missione avventurosa, fino al negozio di import-export, all’altro capo della città. Attorno ai dischi ruotava una cultura che andava al di là delle note, e si nutriva di copertine d’arte, vinili colorati e in edizione limitata, formati diversi da collezionare, la proposta del momento a tutto volume, file di album da scartabellare come gigantesche figurine, il personale disponibile, che ti diventava amico e ti teneva gli LP da parte. L’acquisto di un disco assumeva i connotati emotivi di un cerimoniale, con il cellophane da aprire, il vinile lucido e nero da sfilare con cura e deporre sul piatto del giradischi, le note di copertina e, per prodotti più indie-underground, i graffiti da decifrare in controluce alla fine delle tracce. Ogni volta che la puntina agganciava i solchi per la prima volta, si restava in adorazione e ci si perdeva in un mini evento. Poi arrivò la musica del futuro, nel formato CD. Mi ricordo ancora dimostrazioni televisive surreali, che annunciavano come sul compact disc ci si potesse scrivere a pennarello, versarci la cocacola alle feste, mangiarci sopra e quello avrebbe continuato imperterrito a suonare, senza crepitii, senza lati A o B, fino al doppio dei brani di un disco tradizionale (scoprimmo, poi, che non era scevro da difetti e fallimenti). Adesso che siamo nell’era degli mp3, tutto questo fa un po’ sorridere. Un’intera discografia può risiedere comodamente nei circuiti di un computer; non si vede, non si tocca e, disponendo di una connessione internet ed una carta di credito, si acquista con un facile clic, rimanendosene in pigiama, sul divano di casa. Un cambiamento, che ha, ovviamente, non solo modificato le modalità di fruizione musicale, ma determinato la scomparsa e la chiusura di molti negozi di dischi. Per questo, da cinque anni, al terzo sabato del mese di aprile, in tutto il mondo si celebra Record Store Day, una giornata dedicata alla salvaguardia dei supporti fonografici e del rapporto fisico con il formato musicale. Per l’occasione vengono stampati vinili da collezione e artisti, dj e musicisti, si fanno trovare nei negozi per firmare autografi, mixare musica e suonare pezzi dal vivo. Tra i numerosi esercizi che hanno preso parte all’iniziativa, i 5000 metri quadrati di Rough Trade East, nel cuore di Brick Lane, sono stati presi d’assalto da fan del vinile, musicofili e gente comune, attratta dalla possibilità di passare un pomeriggio diverso, con l’occasione di ascoltare concerti a costo zero. La line up prevedeva infatti le performances di Johnny Flynn, Little Boots e Keane. Tra i vinili rimessi in circolazione, l’intera discografia dei Cure, mille edizioni dei singoli dei Clash e dei Sex Pistols, un cofanetto con i 45 giri dei Beatles e duemila stampe della raccolta di B-sides del gruppo di Noel Gallagher, High Flying Birds.
La forchetta di Shakespeare
L’evasione dal quotidiano fa parte della natura umana. Che si fugga dal traffico, dalla routine, dai rumori, o dal fango, dalle fatiche e dalle imposizioni, poco importa. Da sempre, la mente ha bisogno dei suoi spazi per viaggiare o, semplicemente, riposare. Quattro o cinque secoli fa, quando non c’erano TV e internet, i servizi igienici erano scarsissimi e le case, costruite in travi di legno, pigliavano facilmente fuoco, i londinesi riuscivano a divagarsi lo stesso. Come? Con il teatro, che, guarda caso, si trovava sempre in zone licenziose e malfamate, con il beneplacito di sua Maestà.
Queste aree erano denominate “liberties”, vi fiorivano bordelli e scoppiavano risse, si faceva mercato all’ingrosso e ci si ubriacava in compagnia. Menzionando il teatro elisabettiano, la maggioranza di noi oggi pensa al Globe Theatre, palcoscenico di successo per le opere di Shakespeare. Tuttavia, alla fine del ‘500, tra Shoreditch e Southwark, di teatri rotondi, a tre piani, in cui plebaglia e nobiltà si mescolavano per due ore di farsa o tragedia, ce ne erano parecchi. Un penny per stare in piedi nell’arena, alla mercè delle intemperie, o somme più alte per sedersi in galleria o addirittura sul palco, vicino agli attori, per un momento di narcisismo irripetibile. Di questi teatri, restano i nomi suggestivi: Curtain, Swan, Fortune, Red Bull… Del Rose Theatre si sono rinvenute le fondamenta una ventina di anni fa. Costruito nel 1587 dall’impresario Philip Henslowe, in società con il droghiere Cholmey, il Rose era di forma poligonale e realizzato in materiali tradizionali (travi di legno, intonaco, gesso e pagliericcio). A differenza di altri teatri, questo spazio permetteva la messa in scena di grandi opere, su due livelli. Il Rose funzionò a pieno ritmo fino al 1605, anno in cui chiuse i battenti e venne raso al suolo. Per modo di dire, dato che nel 1989, durante dei lavori di costruzione, le ruspe si imbatterono nelle sue fondamenta. Il teatro passò sotto la cura del Museo di Londra, che tutt’ora indaga il sito, con un’equipe di studiosi ed archeologi. Dal 1999, il Rose è aperto al pubblico e, una parte di esso, dal 2007, funziona come spazio performativo, con opere elisabettiane o contemporanee. Frattanto, i lavori di scavo e indagine proseguono. Tra i vari oggetti rinvenuti, numerosi semi e gusci di nocciole, monetine e persino una forchetta. Quest’ultima, conservata al Museo di Londra, sarà protagonista di un programma radiofonico, sulla BBC Radio4, dedicato al mondo di Shakespeare, che inizierà il 16 aprile prossimo.
Gli Angeli di St. Martin in the Fields
Rimanendo a Trafalgar Square, qualche sera fa, sono andata alla chiesa di St. Martin in the Fields, per assistere ad uno dei suoi famosi concerti di musica barocca, quello suggestivo, a lume di candela. St. Martin fu fondata nel medioevo dai benedettini e l’edificio attuale venne realizzato nel 1726, su progetto di James Gibbs. La chiesa, che esternamente è di gusto classicheggiante e si segnala per una singolare torre gugliata, all’interno mostra delle volte a botte finemente ricamate da bellissimi stucchi. Mentre l’orchestra e il coro bavaresi di Neubeuern eseguivano magistralmente l’oratorio di Bach BWV 245, il mio sguardo si posava, tra un recitativo e un’aria, sui merletti bianchi del soffitto, attardandosi tra le valve di una conchiglia, le volute di un cartiglio e le rotondità celestiali di angeli e nubi barocche. Queste decorazioni eleganti, furono eseguite esclusivamente da manovalanze italiane, nello specifico da Giuseppe Artari e Iacopo Bagutti. Qualche anno fa, prendendo parte ad una delle visite guidate, organizzate mensilmente dalla chiesa stessa, avevo avuto occasione di esplorare l’edificio in tutte le sue parti, comprese le varie zone “nascoste”, come la Royal Box (cioe’ la loggia finestrata riservata ai monarchi), la cripta e le gallerie. In quell’occasione, la guida ci disse che i cherubini più belli sono quelli dietro l’organo, visibili solo a chi percorre la galleria in direzione della facciata. I putti di St Martin, in generale, appaiono gli uni diversi dagli altri e, al confronto di tanti loro simili, che, pingui e riccioluti, si arrampicano a frotte su altari e volte di chiese continentali e mediterranee, hanno qui, con le loro piccole teste alate, ruolo di spettatori discreti, confinati nel disegno simmetrico delle volte.
Stand-up comedy a sud di Londra
Un buon test per capire a che punto sia il vostro inglese e quanto vi siate integrati nel paese di accoglienza è assistere ad una stand-up comedy. Non si tratta ovviamente solo di comprendere l’idioma, gli accenti e lo slang, ma di essere in grado di percepire l’humour che si cela dietro le vare battute, e riderne di conseguenza. Alcuni jokes, hanno sapore internazionale e propongono schemi che susciteranno ilarità di fronte a qualsiasi audience; altri, più radicati nella cultura british, possono avere un sapore surreale e colpire in maniera sottile. Il bello della stand-up comedy è il comico da solo, sul palco, alla mercè del suo pubblico. Botta e risposta, improvvisazione, battute e scherzi da ambo le parti. Un po’ come la fossa dei leoni. Prenderla male o sul personale, significa essere out. La complicità e le vibrazioni che si creano, sono una vera e propria questione di chimica. Il comico può tenervi in pugno con facilità e farvi ridere di gusto, oppure lasciarvi freddamente partecipativi, o, in casi estremi, francamente annoiati. Di solito, la serata si suddivide in tre o quattro atti e c’è un comico (stand-up MC) che presenta lo spettacolo e fa da cornice ai numeri degli altri. Proprio ieri sera, ho scoperto una fantastica venue a due fermate di overground da casa.
The Hob è un pub vittoriano di larghe dimensioni, inserito in un edificio semicurvo, proprio di fronte alla stazione di Forest Hill. A vederlo da fuori, fa un po’ pensare a quei film con le diligenze, dove il viaggiatore impolverato e stanco andava a sgranchirsi le gambe e rinfrescare la gola con un bicchiere di birra. Varcata la soglia, però, il pub ha un’aria molto giovanile, ci sono lucine, la musica, poltrone qua e là, un caminetto funzionante nei mesi invernali, un tavolo da biliardo e un certo feeling studentesco. Al piano di sopra, uno spazio molto spartano, adibito a teatro, ospita le serate della EDComedy. Non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di un locale periferico, animato da dilettanti, ma di uno stage che si è ritagliato una certa fama, ospitando, ogni sabato, il meglio della scena comica e cabarettistica della città, con attori del calibro di Bill Bailey, Mark Lamarr e, per l’appunto ieri sera, la spumeggiante Ninia Benjamin. Gli attori che si sono avvicendati sul palco sono stati tutti bravissimi, ma lei, fin da quando ci ha messo piede, si è rivelata semplicemente irresistibile, anzi, come direbbero qui, larger than life. Se vi trovate a Londra non perdetevi per nulla al mondo un suo spettacolo. Riderete di gusto all’ironia graffiante e alle prospettive tutte al femminile di quest’artista di talento, che saprà catturarvi con il suo umorismo sfacciato e pungervi nel vivo con assoluta gentilezza.
EDComedy at The Hob
The Hob
7 Devonshire Rd
Forest Hill
SE23 3HE


