Come ogni anno, l’atteso weekend di Open House London, ha spalancato i battenti di centinaia di luoghi difficilmente accessibili al pubblico: case, palazzi, edifici di culto, siti archeologici, stabilimenti ed infrastrutture.
Come ogni anno bisogna essere organizzati, strategici e flessibili, non dannarsi se gli orari o i giorni di apertura subiscono cambiamenti all’ultimo minuto o il sito internet della manifestazione si pianta. L’importante è sapere quello che si vuole e stabilire dei limiti. Quest’anno, non avendo molto tempo a disposizione, e per nulla voglia di fare delle file chilometriche o di circumnavigare la città, ho scelto di visitare degli edifici simbolo della lunga storia di immigrazione che ha caratterizzato Londra, da sempre.
Tra questi, una casa settecentesca, al n. 13 di Princelet Street.
Costruita da Edward Buckingham nel 1719, in quella che, all’epoca, era un’area prosperosa, appena fuori le mura della City, e, per questo, prediletta da immigrati, la casa fu abitata da una famiglia di Ugonotti. La popolazione di Spitalfields era costituita in gran parte da immigrati francesi, sfuggiti alle persecuzioni religiose, dopo che il protestantesimo era stato dichiarato illegale con l’Editto di Fountainebleau, nel 1685.
Gli Ugonotti avevano portato con sé molte abilità, che seppero mettere a frutto.
Erano bravi orologiai, gioiellieri, argentieri e, soprattutto, tessitori di seta. Molte delle case che ancora sopravvivono nel quartiere, fra Princelet Street, Folgate Street e Spital Square, mantengono un’aria austera e dignitosa, con le imposte alle finestre, e gli ultimi piani spesso rischiarati da lucernari, dato che un tempo servivano ad ospitare i telai.
Le sete tessute dagli Ugonotti erano ispirate alla natura e mirabilmente decorate da un intreccio di fiori, foglie e insetti. Purtroppo, questa prosperità non durò a lungo. Infatti, agli inizi del XIX secolo, l’industria del tessile entrò in crisi, e agli Ugonotti impoveriti, si aggiunsero altre ondate di immigrati, rendendo l’area sempre più povera e malsana.
Agli inizi degli anni Ottanta, Peter Lerwill comprò la casa, ormai ridotta ad un rudere, e, assieme all’architetto Julian Harrap, iniziò un attento restauro, che durò tre anni. Molte delle caratteristiche settecentesche erano state mantenute inalterate, così come la pianta originale. Gli interventi furono di tipo conservativo e tutte le modifiche necessarie a rendere la casa abitabile (riscaldamento, cavi elettrici, tubature, eccetera), furono attuate con rispetto e cura. Così i caminetti conservano ancora il rivestimento in piastrelle, bellissime e tutte diverse, ognuna con una storia da raccontare, i muri sono coperti da pannelli di legno che hanno resistito all’affronto dei secoli, e le scale seguono le diagonali di assestamento della casa. Sulle pareti, campeggiano ritratti settecenteschi e stralci di sete intessute, a memoria di chi visse in questi ambienti, secoli fa. L’abitazione, alla morte di Lerwill, fu lasciata in eredità a The Landmark Trust, un’associazione benefica che restaura edifici storici o di importanza architettonica, per adibirli a case vacanze.
13 Princess Street può ospitare fino a 6 persone. Per info: 0044(0)1628 825925.
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Marble Hill, un’elegante villa settecentesca
Nel XVIII secolo, poco più a ovest di Richmond, le rive del Tamigi consistevano di prati ed orti, qua e là punteggiati da piccoli villaggi, come quello di Twickenham. In queste zone, bucoliche e tranquille, da quando era stata stabilita la residenza reale di Hampton Court, era divenuto di moda, tra i nobili, farsi costruire ville di lusso, lontano dai miasmi e dal trambusto della città. Queste residenze erano facilmente raggiungibili via fiume. La barca, infatti, restava il mezzo privilegiato per chi non voleva subire il disagio delle strade di Londra e la tortura di lunghi e massacranti viaggi in carrozza.
Verso il primo trentennio del Settecento, in opposizione al barocco, cominciò ad affermarsi il gusto per un’architettura più semplice e lineare, ispirata allo stile classico di Vitruvio e ai disegni dell’architetto veneto Andrea Palladio. I suoi libri sull’architettura circolavano a Londra in edizioni economiche e gli architetti, quelli che potevano viaggiare, si recavano in Italia per studiare le sue opere dal vivo.
Non sorprende, dunque, se anche l’amante di re Giorgio II, Henrietta Howard, contessa di Suffolk, si fece progettare la casa da Colen Campbel, architetto fondatore del neopalladianesimo. I disegni realizzati da Campbel per Marble Hill differiscono dall’edificio costruito tra il 1724 e il 1729 per Henrietta. Molto probabilmente il progetto iniziale per la casa fu modificato per contenere i costi. Marble Hill House è una residenza molto fine, che, assieme alla vicina Chiswick House, in costruzione negli stessi anni, scatenò un vero e proprio entusiasmo per il palladianesimo, che divenne lo stile ‘georgiano’ per eccellenza, sia in Gran Bretagna che in America, soprattutto per le grandi tenute di campagna o delle ricche piantagioni.
Henrietta Howard, figlia di un baronetto del Norfolk, era rimasta orfana in tenera età ed aveva contratto un matrimonio infelice con il violento e dissoluto figlio del conte di Suffolk. Separatasi di fatto, e divenuta dama di compagnia della principessa di Galles, ben presto, con il beneplacito della padrona, assunse il ruolo di amante ufficiale del futuro re Giorgio II. Henrietta fu donna di grande personalità, che seppe circondarsi di amicizie importanti, come il poeta Alexander Pope, lo scritttore Jonathan Swift ed il drammaturgo John Gay. Henrietta, stanca di intrighi ed invidie, ed intuendo una certa freddezza da parte del regale amante, abbandonò la corte nel 1733 e si ritirò nella pace idilliaca di Marble Hill House. Fu in questo luogo, lontano dagli obblighi della vita ufficiale, che passò il resto della sua vita. Sappiamo che fu felicemente sposata al politico George Berkeley e che, in vecchiaia, strinse amicizia con Horace Walpole, il quale stava costruendo la sua villa neogotica, Strawberry Hill, dall’altro lato di Twickenham. Henrietta morì a Marble Hill nel 1767 e la sua casa passò a vari inquilini illustri, tra cui Lady Fitzherbert, amante (e moglie illegale) del futuro re Giorgio IV, ed il deputato Jonathan Peel, fratello del Primo Ministro, Sir Robert Peel. Dilapidata e poi abbandonata, alla fine dell’Ottocento Marble Hill rischiava la demolizione. Fortunatamente, la strenua opposizione dei residenti ed una legge ad hoc del Parlamento, promulgata nel 1902, fece della tenuta e della villa un’area protetta ed aperta al pubblico.
La villa, tuttavia, dovette attendere fino al 1965 per essere restaurata e riportata all’antico splendore settecentesco. English Heritage, che la gestisce dal 1986, ha in seguito recuperato parte dell’arredamento originario, come i paraventi di lacca cinese, i tavoli dal gusto esotico, le belle tele con i capricci di Giovanni Paolo Pannini e una serie di pregiati ritratti, tra cui quello di Henrietta, commissionato da Alexander Pope e dipinto da Charles Jervas, nel 1724.
La dama appare vestita semplicemente, priva di gioielli e con i capelli sciolti, a simboleggiare una donna della ragione nell’età del razionale palladiano. Ma, proprio come l’interno della sua casa, pieno di colori e cineserie, la semplicità dei modi di Henrietta, patrona delle arti ed intellettuale di talento, fu animato da vivacità ed esotismo.
Inaugurata a Londra la New Tate Modern
Venerdì pomeriggio sono stata alla Tate Modern per l’inaugurazione della Switch House, il nuovissimo edificio che si aggiunge al corpo principale di quella che era la Bankside Power Station. La Switch House è stata progettata dagli stessi architetti che avevano ristrutturato la vecchia centrale: Herzog & de Meuron. L’estensione consta di 10 piani, e, i primi due, già esistenti (si tratta dei locali delle vecchie cisterne d’olio, che erano stati inaugurati anni fa), oltre ad un ponte interno, la collegano alla struttura esistente. L’edificio è alto 65 metri ed è rivestito da mattoni, per amalgamarsi alla muratura della ex Power Station, costruita negli anni Trenta. La Turbine Hall, nonostante l’estensione, continua a rimanere l’elemento centrale della nuova Tate Modern, raccordando la Boiler House e la Switch House. L’estensione, che ha una superficie sfaccettata, sottolineata da feritoie e movimentata dall’uso di mattoni, ricorda una moderna ziggurat. La Switch House è un edificio dove ammirare opere d’arte, assistere a performances, incontrare gente, imparare. Ci sono sale dedicate a sculture contemporanee, fotografie, installazioni, le produzioni inconsce dj Rebecca Horn, le aracnidi di Louise Bourgeois, l’arte povera di Marina Merz. I volumi si espandono e si contraggono, e le scale, curvando e zigzagando, arrivano fino al decimo piano, dove una terrazza panoramica offre nuovi scorci della città e tramonti carichi di nubi. Persino la stazione della metropolitana di Southwark ha ricevuto un restyling. I tondi iconici con il nome della stazione, sono stati infatti ridipinti da Michael Graig-Martin.
Al Parlamento di Londra, un’opera celebra le suffragette
Varcare la soglia del Parlamento dà sempre un po’ di emozione, e ieri l’ho fatto per visitare un’opera luminosa dell’artista Mary Branson, dal titolo: “New Dawn”.La scultura è composta da elementi luminosi, dei rotoli di vetro soffiato (riferimento agli atti conservati negli archivi parlamentari) montati su saracinesche (emblema del Parlamento). Questi, combinati assieme, formano 168 simboli di Venere, e rappresentano le donne che combatterono per il diritto al voto. La scultura cambia colore e le diverse tonalità servono a riflettere le varie organizzazioni coinvolte nella campagna, dalle suffragette del WSPU e della National Union a quelle della Freedom League. Il titolo dell’opera, invece, è desunto dal linguaggio politico delle suffragette, che vedevano nel voto alle donne l’alba di un nuovo giorno.
“New Dawn” è installata nell’ala più antica del Palazzo, la Westminter Hall, proprio sopra l’ingresso della St Stephen’s Hall, luogo che vide numerose riunioni e proteste. È il primo pezzo di arte astratta contemporanea ad entrare nella collezione permanente del Parlamento.
Inaugurata il 7 giugno scorso, ricorrenza dei 150 anni dalla campagna per il voto alle donne, “New Dawn” può essere ammirata gratuitamente prenotandosi qui. Le visite sono disponibili dal lunedì al sabato, dalle 9:00 alle 17:30, fino al 1 settembre, e bisogna munirsi di un documento di identità.
Il Big Ben verrà messo a tacere
Il restauro del Big Ben costerà circa 30 milioni di sterline (o anche 40, se i tempi previsti per l’intervento, dovranno dilungarsi). L’orologio, da parecchi anni mostrava i segni dell’usura, un ritardo di circa sei secondi e vari problemi tecnici, ma ora, anche la torre che lo ospita non se la passa meglio. Recenti indagini hanno messo in luce difetti ed erosioni nelle strutture in metallo, nonché delle crepe nel tetto. Quindi, anche se il mastodontico Palazzo di Westminster necessita di ingenti restauri, le problematiche che interessano la Elizabeth Tower ed il Big Ben, sono sicuramente più urgenti e legate ad un ovvio rischio di immagine, oltre al fatto che, se non si interviene immediatamente, il meccanismo dell’orologio potrebbe arrestarsi per sempre.
Nelle proposte presentate al comitato finanziario della House of Commons, sono stati inseriti dei lavori per la creazione di un centro visitatori ed un ascensore. Al momento, le visite guidate al Big Ben, sono disponibili solo ai residenti permanenti nel Regno Unito previa raccomandazione da parte di un Membro del Parlamento o della House of Lords. Si tratta di visite esclusive, da prenotare con largo anticipo, e che prevedono una certa forma e resistenza fisica: l’ascesa alla torre dell’orologio può essere fatta solamente salendo 334 ripidi scalini di pietra.
David Bowie e la sua Londra
Due giorni fa, Londra (e non solo) si è svegliata incredula alla notizia della morte di David Bowie. I fan, oltre a ricordarlo sui social media, si sono radunati a Brixton, creando un santuario improvvisato, con fiori e biglietti, davanti al murales del Ritzy cinema.
David Jones, in arte David Bowie, era nato al numero 40 di Stansfield Road, proprio a Brixton, ed aveva passato la prima giovinezza e gli anni di gavetta nel sud est di Londra. Dopo aver frequentato la scuola materna a Stockwell, David si era trasferito con la famiglia a Bromley, quartiere in cui aveva frequentato varie scuole, diplomandosi alla Bromley Technical High School di Oakley Road (oggi Ravens Wood School), con il voto più alto in materie artistiche. Per un breve periodo, aveva anche proseguito gli studi alla Scuola d’Arte di Croydon, ma aveva lasciato per dedicarsi completamente alla musica. Lo vediamo collaborare, nei primi anni Sessanta, con vari gruppi del sud, tra Orpington, Maidstone e Margate. Poi, nel 1965, decide di cambiare il suo nome in David Bowie. Nel 1969, dopo alcuni mesi vissuti a Kensington, si traferisce di nuovo a sud-est, andando a vivere all’interno 1 di 24 Foxgrove Road, a Beckenham. È in quest’area di Londra che, nel maggio dello stesso anno, Bowie dà vita al Beckenham Arts Club, inizialmente un folk club, nei locali del Three Tuns pub (ora Zizzi). Bowie apparirà anche al primo festival libero di Beckenham, ma, ormai, gli ideali hippy non fanno più presa ed è in arrivo una rivoluzione. A luglio del 1969 esce il singolo “Space Oddity”, e, a ottobre, David, cambia di nuovo casa. Sempre a Beckenham, al numero 42 di Southend Road, in una casa vittoriana: Haddon Hall. L’appartamento al piano terra, dove Bowie mette dimora, ha un soffitto argentato, una grande finestra e un giardino dove intrattenere gli amici. Parlando della genesi di “Life on Mars” Bowie ricordava un giorno di essere stato al parco e poi di aver camminato fino a Beckenham High Street, per prendere l’autobus fino a Lewisham, dove voleva fare un po’ di shopping. Ma il riff della canzone si era installato così prepotentemente nella sua testa, che, dopo appena due fermate, aveva deciso di scendere e tornare a casa per scrivere il pezzo. Purtroppo, Haddon Hall non esiste più; al suo posto, sono sorti degli appartamenti. Tuttavia, si vede in alcune foto, scattate da Mick Rock, che ritraggono Bowie davanti e all’interno dell’edificio.
Nel 1972 l’album “Rise and Fall of Ziggy Stardust” viene alla luce. Le sue radici sono ancora a sud della città, È a Haddon Hall, che nasce il personaggio androgino di Ziggy Stardust, i cui abiti fantasiosi furono cuciti proprio qui, mentre il taglio di capelli venne elaborato da Susi Fussey, una parrucchiera di Beckenham. Gli stivali a zampa rossi e neri, vennero invece fatti fare su misura a Penge, da Stan Miller della Greenaway and Sons. Le canzoni dell’album nacquero in uno studio improvvisato, nel sottoscala di Haddon Hall.
Alcuni pezzi, furono provati al secondo piano del Thomas A Becket, un pub che, sopravvive ancora oggi, finalmente restaurato, al 320 di Old Kent Road. Con l’arrivo del grande successo, Bowie lascia Beckenham, per trasferirsi a Maida Vale. Gli anni a sud del fiume erano ormai finiti. Ma è qui che i londinesi lo vogliono celebrare.
A Londra, due Festival delle Luci
Per molti, gennaio è un mese deprimente: freddo e buio ci attanagliano, e le Feste sono ormai alle spalle, con tutto il carico di buoni propositi destinati a naufragare, un girovita appesantito e la poca voglia di rimettersi al lavoro. La luce, si sa, può allontanare il malumore. Un doppio appuntamento gratuito con un festival delle luci, è l’evento da non mancare. Londra è una città all’avanguardia nell’attuazione di iniziative artistiche, che rappresentano, allo stesso tempo, un intervento di decoro urbano (basti pensare ai tanti ‘sculpture trails’ che ogni anno mettono cittadini e visitatori in contatto con nuovi linguaggi artistici o permettono loro di scoprire aneddoti e storie interessanti).
Un festival delle luci è l’occasione perfetta per fare una passeggiata, da soli o con amici, alla scoperta di installazioni luminose create da artisti britannici ed internazionali, allo scopo di stupire, divertire, ma anche far riflettere.
L’iniziativa, delimitata ad una o più aree di intervento, è non soltanto un’occasione di riqualificazione urbana e di coinvolgimento pubblico, ma, ripetuta nel tempo, si pone anche come interessante attrattiva turistica.
A Canary Wharf, dall’11 al 20 gennaio, Winter Lights offre ai visitatori un tour di 18 installazioni luminose, che includeranno farfalle di luce, un alieno di oltre 5 metri, e una scultura al neon creata dal palestinese Alaa Minawi, in solidarietà con i rifugiati siriani.
A complemento del festival, nella lobby di One Canada Square, si potrà anche visitare la mostra di Nathaniel Rackowe, dal titolo “The Luminous City”.
Dal 14 al 17 gennaio, Lumiere London trasformerà ogni sera le strade del centro, tra Westminster e King’s Cross. Anche qui si potranno ammirare le opere di una ventina di artisti internazionali, tra cui Julian Opie, Sarah Blood e Porté par le Vent, che, dopo il successo in Francia e a Gerusalemme, porteranno Les Luminéoles, un affascinante spettacolo di pesci fluttuanti, nel cuore di Piccadilly.
Questi eventi gratuiti, seguono l’esempio di altri festival europei di successo (basti citare la Fête des Lumières di Lione) e, oltre ad attirare migliaia di londinesi e visitatori, si spera riusciranno come antidoto al post-holiday blues.
A Londra, per un Natale alla Dickens
Manca una settimana al Natale. Londra è rutilante di luci, mercatini, vetrine piene di addobbi e dolci, locali affollati per cene e feste con colleghi e amici, cori natalizi e alberi inghirlandati, persone affaccendate con lo shopping e impegni vari. In mezzo a tanto “rumore”, fa bene allontanarsi un poco dalla pazza folla e ripercorrere le pagine di un libro, regalandosi una parentesi di sapore vittoriano.
A Christmas Carol (Un Canto di Natale) è una novella di Charles Dickens, che vide la luce il 19 dicembre del 1843. In essa, lo scrittore infuse un messaggio umanitario di pace e di misericordia, contro l’avidità e le ingiustizie sociali. Ambientato alla vigilia di Natale, in una Londra fredda e piovosa, il racconto gioca sul contrasto di luce e tenebre, caldo e gelo, ponendo il tirchio Ebenezer Scrooge nel cuore economico e finanziario della City, con tutto il suo corollario di avarizia, cinismo e potere, e situando l’impiegato Bob Cratchit in un quartiere subito a nord, là dove tutta un’umanità, più o meno disagiata, vive e spera, rallegrandosi nello spirito del Natale. Attraverso la visita di alcuni fantasmi, tra cui quello del suo vecchio socio, ormai incatenato ai propri peccati, il vecchio Scrooge si redime e cambia strada, accettando l’invito del suo unico parente, aumentando lo stipendio al sottopagato Bob Cratchit e dandosi alla filantropia. Nessuno meglio di Dickens ha saputo immortalare Londra, e, soprattutto, le zone e gli ambienti in cui lo scrittore aveva vissuto e lavorato, dalla orribile fabbrica di lucido da scarpe agli studi legali, senza dimenticare l’attività di giornalista, che lo aveva guidato in vari angoli, più o meno bui, della città. È per questa consuetudine di Dickens con Londra, che è ancora oggi possibile leggere le pagine di A Christmas Carol e ritrovare luoghi e suggestioni familiari. Mettetevi il libro in tasca o sotto braccio, e recatevi nella City, magari di domenica, quando uffici e locali riposano e le vie sono sgombre dal frenetico brulicare di bancari, avvocati, impiegati e agenti di borsa. Potrete unire alla passeggiata letteraria un tour piacevole di luci e decorazioni natalizie, a cui aggiungere, durante la settimana, anche un po di shopping e un drink restorativo. Partendo dalla cattedrale di St Paul’s, lungo la direttrice di Cheapside, soffermatevi davanti al Royal Exchange.
È qui che l’ultimo degli spiriti natalizi trasporta Scrooge, per fargli ascoltare chiacchiere e commenti poco edificanti di banchieri e agenti di borsa riguardo alla sua morte. Proseguendo a destra, verso Cornhill, potreste immaginare quale fosse il vicolo dove Scrooge aveva la sua ditta di contabilità. Un pub sulla strada porta il nome, non a caso, di The Counting House. Fu costruito nel 1893 come Prescott Bank, e le fondamenta poggiano sui resti dell’antica basilica romana. “L’antico campanile di una chiesa, la cui burbera vecchia campana guardava costantemente giù verso Scrooge, affacciata a una finestra gotica nel muro” non può essere altro che quello di St Michael Cornhill. Poco più avanti attraversate Gracechurch Street e tuffatevi nelle luci calde del mercato coperto di Leadenhall, un gioiello di architettura vittoriana, progettato da Sir Horace Jones (1881). Il mercato esiste qui dal medioevo, ed è in questo luogo, oggi spendente e ornato, che Bob Cratchit forse si era recato a comprare l’oca da cucinare per il pranzo di Natale.
Basta attraversare Leadenhall Market per ritrovarsi in Lime Street. Sulla strada torreggia, in tutta la fredda magnificenza dell’acciaio inox, l’edificio di assicurazioni Lloyd’s, progettato da Richard Rogers (1986). Nulla resta della casa di Scrooge, al numero 45, “una sfilata di stanze, già un tempo proprietà del socio defunto, in un vecchio e bieco caseggiato che si nascondeva in fondo ad un vicolo così buio, che lo stesso Scrooge, pur conoscendolo pietra per pietra, vi brancolava”.
Dopo questa passeggiata, potete concludere in bellezza con una visita al Dickens Museum, allestito in una casa Georgiana di Holborn. Qui Charles Dickens visse dal 1837 al 1839 e traslocò in seguito all’aumento dei componenti della sua famiglia e ad una maggiore agiatezza derivatagli dai suoi proventi di scrittore. Oltre a poter ammirare mobili, suppellettili e memorabilia, per tutto dicembre, sarete accolti da addobbi natalizi in stile vittoriano, e potrete partecipare ad eventi speciali, come una visita a lume di candela, la lettura del celebre Canto di Natale e un’apertura straordinaria, il 24, con performances teatrali, cori tradizionali e un salto in cucina, per seguire le istruzioni su come cucinare il Christmas pudding.
Poiché di questo dolce natalizio abbiamo già parlato, vi lascio con la ricetta per cucinare l’Oca alla Salvia come quella di Mrs Cratchit:
- Un’oca intera svuotata dalle interiora, di cui terrete, se volete, una parte;
- Per il ripieno: rondelle di mela, la buccia di un limone, salvia;
- Per il brodo: frattaglie d’oca (o un dado), una cipolla, un gambo di sedano, una carota, prezzemolo, sale e pepe.
Procedimento:
Cuocete l’oca in forno, in una teglia capiente, dopo averla farcita con il ripieno di mele, limone e salvia, ed averla unta di olio o burro. Il forno deve essere regolato a 220 gradi per la prima ora di cottura e abbassato a 180 per gli ultimi 30 minuti. Girate l’oca ogni mezz’ora e assicuratevi che sia ben cotta, prima di tirarla fuori dal forno. Il grasso di cottura può essere mescolato a farina e brodo per realizzare una salsa da accompagnare all’oca.
“Un’oca simile non s’era mai data. Disse Bob che, secondo lui, un’oca di quella fatta non era stata cucinata mai. La sua tenerezza, il profumo, la grassezza, il buon mercato furono oggetto dell’ammirazione universale. Col rinforzo del contorno di mele e delle patate, il pranzo era sufficiente: anzi, come diceva tutta contenta la signora Cratchit, guardando ad un ossicino nel piatto, non s’era potuto mangiar tutto!”
La Londra di Samuel Pepys
Il Seicento fu un secolo turbolento per l’Inghilterra. Tra la Guerra Civile, il regicidio di Carlo I (1649), la Repubblica di Cromwell, il ritorno di Carlo II dall’esilio in Olanda (1660), le dispute sulla successione sfociate nella Gloriosa Rivoluzione e l’ordine ristabilito nel 1689, si vennero a creare importanti sviluppi costituzionali e le premesse per un Paese moderno, democratico e protestante. Oltre a questi rivolgimenti politici, Londra fu vittima di due eventi devastanti: la Grande Peste del 1665 e il Grande Incendio del 1666. La prima, decimò quasi un quinto della popolazione, il secondo distrusse i due terzi della città, inclusa la cattedrale di St. Paul. Il Seicento, fu anche l’epoca in cui, tra gli scrittori famosi, oltre a poeti e commediografi, si possono annoverare prosatori come filosofi e diaristi, promotori di un linguaggio chiaro e razionale, desunto dalla scienza. Tra i diaristi, assai numerosi nel XVII secolo, sono due quelli che hanno narrato, inframezzati alle loro vicende personali e di vita quotidiana, fatti salienti dal punto di vista storico: John Evelyn, uno dei fondatori della Royal Society, e Samuel Pepys, politico e funzionario navale. Sebbene entrambi abbiano raccontato della Peste e del Grande Incendio, il diario di Pepys, ha superato per fama quello suo contemporaneo, responsabile di un lavoro più sobrio, e, in gran parte meno, personale. Per dieci anni, dal 1660 al 1669, Pepys scrisse sulla sua vita in gran dettaglio, e, inevitabilmente, finì per dipingere un ritratto della sua città e un memoriale della Restaurazione. Il diario contiene vivaci descrizioni di come la Peste e il Grande Incendio avessero devastato Londra, ma è anche strapieno di dettagli sugli spostamenti quotidiani di Pepys, che mostra sempre grande interesse e curiosità per tutto ciò che accade intorno a lui. Figlio di un sarto, Samuel Pepys era adolescente quando il re Carlo I fu decapitato, e, appena ventisettenne, quando si trovava a bordo, assieme a suo cugino, Edward Montagu, della nave che riportava Carlo II in Inghilterra. Nel suo ruolo di funzionario navale e segretario dell’ammiragliato di Sua Maestà, ebbe accesso a corte e nei circoli politici più influenti in città. Pepys dovette la sua carriera, così come la sua istruzione, al talento e al duro lavoro. Appassionato bibliofilo (alla sua morte lasciò una vastissima raccolta di volumi), musicista e cantante dilettante (suonava diversi strumenti, esibendosi in casa, in taverne e coffee houses e persino a Westminster Abbey), si interessò anche di astronomia e scienza, acquistando via via strumenti ottici e matematici. Quello che del diario di Mister Pepys attrae ancora oggi il lettore moderno è il fatto che in esso si mescolino mirabilmente e con sottile ironia affari di stato e dettagli domestici. Pepys scrisse praticamente di tutto, dalla vita a Corte alle sue scappatelle con le attrici di teatro, dallo stato delle finanze personali all’acquisto di un nuovissimo orologio dotato di sveglia, dalle serate con gli amici, rallegrate da vino e musica, ai battibecchi con la moglie e al gatto che lo teneva sveglio all’una del mattino. Forse, uno degli episodi più celebri, è quello che, il 5 settembre 1666, vede il protagonista scavare una buca in giardino, per mettere in salvo dal Grande Incendio documenti e una forma di prezioso parmigiano (!). Pepys spesso conclude la sua scrittura per la giornata con la frase “And so to bed” (e così a letto), che a volte si usa oggi in modo umoristico. Il diario si interrompe, dopo un decennio ed oltre tremila pagine, nel 1669, quando l’autore, preoccupato di perdere irrimediabilmente la vista, decide di smettere di scrivere a lume di candela, non ritenendo peraltro opportuno affidarsi alla dettatura di contenuti così personali. Vivrà ancora altri trentaquattro anni, senza divenire cieco e senza riprendere a scrivere le sue memorie. Il diario, redatto in una forma di stenografia, nota all’epoca, resterà nascosto tra i volumi della biblioteca di Pepys fino a quando, nel 1825, il reverendo John Smith riuscirà a dare alle stampe una traduzione, costatagli tre anni di duro lavoro (essendo ignaro che, la chiave di decodifica del sistema stenografico, era stata lasciata da Pepys in uno dei suoi volumi). La versione completa dell’opera fu pubblicata solo nel 1970, da Bell & Hyman. Infatti, le pubblicazioni vittoriane erano scevre dai passaggi più scandalosi, quelli che includevano le relazioni extraconiugali di Pepys e i dettagli più piccanti delle sue avventure, che il diarista annotava con cautela, mescolando all’inglese, parole in francese e italiano.
Da oggi, una mostra su Samuel Pepys al National Maritime Museum cerca di restituirci una visione ampliata del personaggio e della sua epoca, al di là delle vibranti pagine del diario. Si potranno ammirare gli strumenti musicali di cui Pepys amava servirsi (scoprendo ad esempio com’è fatta una tiorba), i ferri chirurgici che un dottore, come Thomas Hollier, avrebbe usato per operare Samuel di dolorosissimi calcoli alla vescica (e senza anestesia), i ben noti registri parrocchiali che elencavano, tra teschi e ossa incrociate, il triste record dei morti di peste, un’evocazione audio-visiva dell’incendio del 1666, i telescopi che aiutavano a guardare lontano, nonché uno dei più famosi ritratti del diarista, dipinto da John Hayls, seguace di Van Dyck. Pepys cominciò a sedere per questo ritratto il 17 marzo del 1666. Lo scrittore quasi si ruppe il collo, costretto com’era a guardarsi sopra le spalle, per mantenere una postura adatta ad ottenere un quadro pieno di ombre, così come dettava la moda del tempo. In mano, il diarista tiene una lirica di Sir William Davenant, “Beauty Retire”, musicata da egli stesso, di cui un esempio si può anche ascoltare qui.
“Samuel Pepys: Plague, Fire, Revolution” è al National Maritime Museum fino al 28 marzo 2016. Alla mostra si accompagna un fitto programma di conferenze, visite guidate e anche una serata con musiche e danze seicentesche, degustazioni di rum e letture dal celebre diario.
Inoltre:
Il diario di Samuel Pepys si può consultare online, in formato weblog;
Una versione italiana del diario è stata pubblicata recentemente, anche in formato ebook, da Castelvecchi editore;
Da gennaio 2016, una speciale Instawalk, anche in italiano, guiderà i partecipanti alla scoperta dei luoghi di Samuel Pepys, permettendo loro di rivivere il passato e sperimentare nuovi approcci di fotografia mobile.
Info: citywalkslondon@gmail.com.
Piccola storia del tè
“La gente qui non manca di tè, caffè e cioccolato, soprattutto il primo, il cui uso è diffuso a tal punto, che non solo la nobiltà ed i ricchi commercianti lo bevono costantemente, ma quasi tutti hano il loro tè e se lo godono di prima mattina…”
Charles Deering, ‘Nottinghamia Vetus et Nova’, 1751.
Le coffee houses londinesi vendevano caffè, cacao, brandy, rum, ma anche tè. Nel 1657 Thomas Garraway, per pubblicizzare la vendita di tè nella sua rinomata ed elegante coffee house, aveva anche prodotto un volantino, che ne declamava le virtù, anche medicinali. Non tutti però erano d’accordo. Anzi, alcuni ritenevano il tè una bevanda pericolosa. Jonas Hanaway, nel suo saggio del 1757, descrisse questo infuso come corrosivo, emetico e fin troppo costoso. Dalle pagine del Literary Magazine, Samuel Johnson rispondeva al violento attacco al tè di Hanaway, sostenendo invece che questa bevanda elegante e popolare fosse bevibile ad ogni ora, di sapore gradevole e di natura innocua.
E’ innegabile che il tè in Gran Bretagna si diffuse lentamente, proprio a causa del costo elevato. Nel 1660, il diarista Samuel Pepys lo beveva come rimedio medicinale per combattere la tosse. Un secolo più tardi, il tè si vendeva nelle coffee houses londinesi per 2 sterline, cioè l’equivalente di un anno di paga di un mozzo, un anno di visite dal barbiere per un gentiluomo o un mese di lezioni private di danza per una signora. Dunque, seppur disponibile, il tè era un prodotto molto costoso, che solo pochi potevano permettersi. Il caffè rimaneva, al confronto, a buon mercato e proliferava nelle botteghe ad esso dedicate. Solo con l’aumento delle importazioni e la riduzione delle tasse, a partire dal 1730 in poi, il tè si diffuse maggiormente, fino ad essere incluso nella dieta delle classi medie, con una spesa media di 7 pence a settimana, assieme allo zucchero (quindi poco meno di una serata passata alla coffee house). A metà del Settecento, perfino le classi meno abbienti, potevano godersi un tè due volte a settimana. Nel 1784, come attesta La Rochefoucauld, il tè era la bevanda più diffusa in Gran Bretagna, e veniva consumato due volte al giorno, sia dai contadini che dai ricchi. Questo successo, che non si registra allo stesso modo in Francia o in Italia, bevitrici di caffè per tutto il XVIII secolo ed oltre, sicuramente fu determinato dalla tassa sul malto, che rendeva più costosa la birra, dall’abitudine degli inglesi a trangugiare bevande calde, come hot ales e punch, e, soprattutto, dall’impulso al commercio del tè determinato dalla East India Company, che ne deteneva il monopolio. Inoltre, le foglie del tè erano leggere da trasportare e semplici da preservare. Erano anche facili da introdurre come merce da contrabbando. Insomma, nel diciottesimo secolo, il tè eguagliò la birra come bevanda nazionale. E, a differenza degli orientali, lo si beveva con latte e zucchero, altro prodotto coloniale.
Nel primo ventennio del Settecento, il caffè veniva bevuto in maggioranza da uomini ed era una bevanda energetica, che si accompagnava alle discussioni animate ed alla lettura dei giornali, in luoghi pubblici, adibiti alla vendita ed al consumo. Il tè, invece, veniva percepito come un prodotto più delicato e raffinato, adatto alle donne e ad un ambiente familiare e gentile, come le mura di casa o il giardino. La predilezione delle donne per questa bevanda determinò la fortuna di Thomas Twining. Agli inizi del XVIII secolo, Thomas, che aveva alle spalle il mestiere di tessitore, stava cambiando carriera e si era messo a lavorare per un ricco mercante di tè della East India Company, Mr Thomas D’Aeth.
Thomas Twining aveva intuito le possibilità offerte da questa bevanda esotica e, nel 1706, acquistò la Tom Coffee House a Strand, per aprire un negozio di tè. L’esercizio commerciale si trovava in posizione strategica tra la City e Westminster e riusciva ad attrarre le classi agiate in cerca di questa bevanda alla moda. Solo i ricchi potevano permettersi di acquistare il tè e le signore, a cui non era ammesso accedere ad ambienti maschili come le botteghe di caffè e il negozio di Thomas, restavano ad aspettare fuori, sedute in carrozza, mentre i loro valletti entravano a comprare le miscele più raffinate. Finalmente, nel 1784, il Commutation Act ridusse le tasse sul tè, rendendolo una bevanda popolare, alla portata di tutti. Nel 1837, la regina Vittoria nominò Twinings fornitore ufficiale della famiglia reale. Fu questa rinomata ditta ad introdurre la comoda bustina, nel 1956. Dopo 300 anni, potete ancora visitare lo storico negozio di Thomas Twining, al 216 di Strand. Una volta varcato l’ingresso, affiancato da colonne e sormontato da un frontone, da cui si stagliano le statue di un leone, e due cinesi, potrete acquistare tè ed infusi, ammirare un piccolo museo o degustare delle miscele interessanti al nuovo Loose Tea Bar.







