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Nature morte olandesi a Londra

Jan Van Huysum, "Vaso di vetro con fiori, papavero e nido di fringuello" (dettaglio) - 1720-21 (acquisizione X9134) - The National Gallery

Jan Van Huysum, “Vaso di vetro con fiori, papavero e nido di fringuello” (dettaglio) – 1720-21 (acquisizione X9134) – The National Gallery

Oggi vi consiglio (se già non lo avete fatto) una visita alla piccola, ma esaustiva mostra di nature morte olandesi, attualmente alla National Gallery. Dutch Flowers è totalmente gratuita ed è la prima rassegna del genere allestita nel Regno Unito negli ultimi vent’anni. L’esposizione affianca opere della collezione del museo a prestiti privati. I 22 quadri, tutti eccellenti, sono disposti su tre pareti, corrispondenti alle tre fasi evolutive della pittura botanica olandese.
Le prime composizioni floreali sono disposte simmetricamente, affiancando idealmente fioriture di diverse stagioni. Ogni fiore è colto singolarmente, per poterne ammirare meglio le qualità, così come gli insetti che popolano il quadro. Siamo nel primo quarto del XVII secolo, quando i gentiluomini olandesi si dilettavano nello studio della botanica, scambiandosi idee, semi e bulbi, e cercando di ibridare nuove, magnifiche specie. I tulipani erano costosissimi, alcuni bulbi potevano arrivare a costare cifre esorbitanti. I quadri di questa sezione sono dunque lezioni di botanica ideale, in cui si esprime la bravura del pittore, il prestigio del committente e, sempre, un accenno alla vanitas, alla caducità delle cose terrene: petali appassiti, piccole gocce di rugiada, fragili uova in nidi di piume e di muschio, frutti guastati da volatili o insetti.
Gli esempi di questa prima sezione vanno dalla composizione magistrale di Jan Brueghel il vecchio, ai fiori in un bicchiere di Roelandt Savery (1613), ai saggi di bravura di Ambrosius Bosschaert il vecchio, che, su lastra di rame, dipinge un vaso di fiori incorniciato da una nicchia, sul cui bordo riposa una farfalla. Il tema verrà ripreso da un suo allievo, Balthasar van der Ast, nel 1623. Il quadro, dal titolo “Narciso ed altri fiori in un Römer in una nicchia”, rimanda a Bosschaert per l’esecuzione dei tulipani e della farfalla, e ribadisce nell’iscrizione in basso, il tema della vanitas. Successivamente, verso la seconda metà del XVII secolo, i bouquet di fiori assumono un andamento asimmetrico e meno rigido, con una sovrapposizione di foglie e corolle più naturale. Ciò non toglie nulla ai virtuosismi, come il vaso di aquilegie e peonie dipinto da Dirck de Bray nel 1671.
Alla maestria nel rendere i fiori, si unisce il realismo con cui sono rese le venature del tavolo di marmo e il dettaglio della coccinella.
Tra i maestri del secolo d’oro, sono in mostra anche due opere della pittrice Rachel Ruysch.
Nata a L’Aia, nel 1664, crebbe ad Amsterdam, dove suo padre, Frederik Ruysch, anatomista, collezionista e professore di scienze naturali, era direttore dell’orto botanico di quella città. Rachel fu allieva di Willelm Van Aest, maestro di Delft, e le sue composizioni floreali si distinguono per la tavolozza sofisticata e un uso drammatico delle curve e delle diagonali.
Tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, altro importante esponente della pittura floreale olandese è Jan Van Huysum. Le sue nature morte si distinguono per il realismo accentuato e
per la sapiente distribuzione di corolle, foglie, insetti e frutti. Appassionato di fiori fin da bambino, Van Huysum possedeva un giardino e si faceva rifornire dai vivai di Haarlem.
Nella natura morta dipinta nel 1720 tutti i dettagli, dal vaso di vetro, ai papaveri, al nido di fringuello intessuto di muschio, sono accuratissimi.
Più avanti, il pittore adatterà il suo stile ai gusti rococò e la sua tavolozza vertirà su colori più chiari e delicati. Esponente di quest’ultima fase delle nature morte olandesi è Jan Van Os, eccellente esecutore di fiori e frutti, che, nel 1773 e nel 1793, sottopose anche dei dipinti alla Society of Arts di Londra.
Ormai le nature morte sono in grande formato, con composizioni arditissime e decorative, in cui fiori e frutti gareggiano in equilibrio su rovine archiettoniche e vasi anticheggianti.

Dutch Flowers resterà aperta fino al 29 agosto 2016. Orario prolungato tutti i venerdi sera, fino alle 21:00.
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Inaugurata a Londra la New Tate Modern

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Venerdì pomeriggio sono stata alla Tate Modern per l’inaugurazione della Switch House, il nuovissimo edificio che si aggiunge al corpo principale di quella che era la Bankside Power Station. La Switch House è stata progettata dagli stessi architetti che avevano ristrutturato la vecchia centrale: Herzog & de Meuron. L’estensione consta di 10 piani, e, i primi due, già esistenti (si tratta dei locali delle vecchie cisterne d’olio, che erano stati inaugurati anni fa), oltre ad un ponte interno, la collegano alla struttura esistente. L’edificio è alto 65 metri ed è rivestito da mattoni, per amalgamarsi alla muratura della ex Power Station, costruita negli anni Trenta. La Turbine Hall, nonostante l’estensione, continua a rimanere l’elemento centrale della nuova Tate Modern, raccordando la Boiler House e la Switch House. L’estensione, che ha una superficie sfaccettata, sottolineata da feritoie e movimentata dall’uso di mattoni, ricorda una moderna ziggurat. La Switch House è un edificio dove ammirare opere d’arte, assistere a performances, incontrare gente, imparare. Ci sono sale dedicate a sculture contemporanee, fotografie, installazioni, le produzioni inconsce dj Rebecca Horn, le aracnidi di Louise Bourgeois, l’arte povera di Marina Merz. I volumi si espandono e si contraggono, e le scale, curvando e zigzagando, arrivano fino al decimo piano, dove una terrazza panoramica offre nuovi scorci della città e tramonti carichi di nubi. Persino la stazione della metropolitana di Southwark ha ricevuto un restyling. I tondi iconici con il nome della stazione, sono stati infatti ridipinti da Michael Graig-Martin.

 

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Al Parlamento di Londra, un’opera celebra le suffragette

wp-1466062038658.jpegVarcare la soglia del Parlamento dà sempre un po’ di emozione, e ieri l’ho fatto per visitare un’opera luminosa dell’artista Mary Branson, dal titolo: “New Dawn”.
La scultura è composta da elementi luminosi, dei rotoli di vetro soffiato (riferimento agli atti conservati negli archivi parlamentari) montati su saracinesche (emblema del Parlamento). Questi, combinati assieme, formano 168 simboli di Venere, e rappresentano le donne che combatterono per il diritto al voto. La scultura cambia colore e le diverse tonalità servono a riflettere le varie organizzazioni coinvolte nella campagna, dalle suffragette del WSPU e della National Union a quelle della Freedom League. Il titolo dell’opera, invece, è desunto dal linguaggio politico delle suffragette, che vedevano nel voto alle donne l’alba di un nuovo giorno.
“New Dawn” è installata nell’ala più antica del Palazzo, la Westminter Hall, proprio sopra l’ingresso della St Stephen’s Hall, luogo che vide numerose riunioni e proteste. È il primo pezzo di arte astratta contemporanea ad entrare nella collezione permanente del Parlamento.
Inaugurata il 7 giugno scorso, ricorrenza dei 150 anni dalla campagna per il voto alle donne, “New Dawn” può essere ammirata gratuitamente prenotandosi qui. Le visite sono disponibili dal lunedì al sabato, dalle 9:00 alle 17:30, fino al 1 settembre, e bisogna munirsi di un documento di identità.
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Due mesi di tempo per salvare il ritratto di Elisabetta I

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National Portrait Gallery Con la regina Elisabetta I si inaugura una stagione di ritratti dalla complessa iconografia, che vanno al di là della semplice effige del sovrano, e che mirano soprattutto a trasmettere il potere e l’ufficialità, nonché le aspirazioni della monarchia.
Uno stato che è anche fulcro di un impero, grazie al dominio dei mari e alle colonie nel Nuovo Mondo. È in questo ambito che si colloca il ritratto della regina denominato “Armada Portrait”, una tavola dipinta in tre versioni, sopravvissute ai nostri giorni, e realizzate in botteghe diverse, ma tutte facenti capo ad un medesimo artista, peraltro ignoto.
Nel ritratto, a grandezza naturale, Elisabetta I è riccamente abbigliata e circondata da simboli del potere; alle sue spalle, due finestre si affacciano sul mare, e, da una di esse, si scorge la flotta dell’Armada spagnola perire tra i flutti.
Siamo nel 1588, la sovrana siede serena sul suo trono, dando le spalle ai mari in tempesta, la fronte e le perle illuminate da un raggio di luce divina. La mano destra poggia sul globo, le dita distese sull’America, mentre la corona è subito a fianco del gomito, la linea retta di perle della manica la riconduce simbolicamente alla regina. Le perle sono profuse un po’ ovunque, sui capelli, attorno alla gorgiera, sul vestito. La perla più grande, simbolo di castità, pende dall’estremità del corsetto. Subito sotto la finestra con il mare in tempesta e le navi spagnole sopraffatte, si scorge la figura di una sirena, intagliata nel trono. Un simbolo femminile negativo, che allude alla sconfitta dell’Armada, ma anche, forse, a Maria Stuarda, da cui la regina si discosta.
Due versioni del ritratto si possono ammirare rispettivamente alla National Portrait Gallery (una scena tagliata, che lascia visibile solo la regina) e a Woburn Abbey. Il terzo ritratto, invece, da sempre in possesso degli eredi di Sir Francis Drake, che lo aveva commissionato, è ora in vendita, e l’intenzione è di ricavarne 16 milioni di sterline.
Per evitare che l’opera finisca all’estero, The Art Fund, assieme a Royal Museums Greenwich, hanno istituito una campagna di raccolta fondi. Il Tesoro si è offerto di rinunciare a 6 milioni di sterline in tasse, se il ritratto sarà venduto ad una collezione pubblica, dunque l’obiettivo è quello di raccogliere i restanti 10 milioni. La famiglia Tyrwhitt-Drake, proprietari del ritratto, si è dimostrata entusiasta e ben disposta a cedere il dipinto ad un museo.
Al momento, l’Armada Portrait è in mostra al National Maritime Museum, nella Maritime London Gallery. Questo potrebbe diventare il suo luogo definitivo, se in un paio di mesi si raccoglieranno i fondi necessari all’acquisto.

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Tesori sommersi dell’Antico Egitto in mostra a Londra

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Dopo essere stata presentata a Parigi, una mostra di tesori egizi, alcuni dei quali mai visti prima, approda al British Museum di Londra.
Sunken Cities” cerca di ricostruire la storia di due città sommerse, conosciute, fino al loro recente rinvenimento, solo attraverso gli scritti dell’antichità classica. Canopo e Thonis-Heracleion, sito dal doppio nome, egizio e greco, furono sommerse nell’VIII secolo d.C., in seguito a varie calamità naturali, tra cui un terremoto e dei maremoti.
Gli scavi archaeologici, alla ricerca di un mondo che si credeva perduto, sono stati coordinati da Franck Goddio, un archeologo francese, fondatore capo dell’Istituto Europeo per l’Archeologia Subacquea di Parigi, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Oxford, e, ovviamente, in accordo con le autorità egiziane.
Il sito archeologico, da cui gli oggetti in mostra sono stati recuperati, si estende per una superficie di circa 110 km quadrati, e si trova nella baia di Abukir, nei pressi di Alessandria d’Egitto.
Fondata intorno all’VIII secolo a.C., Thonis-Heracleion era una città molto prospera, con una fitta rete di canali ed un porto estremamente importante, da cui transitavano tutte le navi mercantili dei paesi del Mediterraneo che commerciavano con l’Egitto.
Si era pensato, inizialmente, che Thonis-Heracleion fosse una città (o, addirittura due) leggendaria. Lo storico greco Erodoto, nel V secolo a.C., infatti,  l’aveva menzionata in occasione della visita di Elena e del suo amante Paride, prima della guerra di Troia.
Si sa dagli scritti antichi, che Thonis-Heracleion era famosa per un enorme tempio, ed anche per dei santuari, dedicati a Osiride ed altri dei, che erano note mete di pellegrinaggio.
Anche la città di Canopo, che forse derivava il nome dal leggendario timoniere di Menelao, morso da un serpente sulla spiaggia di Thonis, è menzionata da fonti classiche, tra cui un poema del poeta Nicandro, vissuto nel II secolo a.C.
Tra i vari reperti recuperati dai fondali, figura una lampada ad olio, usata durante le cerimonie in onore di Osiris, mentre, tra i manufatti rituali trovati intorno a un punto del tempio e lungo un canale di oltre the chilometri, che collegava Thonis-Heracleion e Canopo, sono stati scoperti anche resti di sacrifici animali. Inoltre, il rinvenimento di centinaia di ancore e di una sessantina di relitti di barche, tra cui una di tipo cerimoniale, risalenti ad un periodo che va dal VI al II secolo a.C., ha confermato l’intensità delle attività maritime dei due antichi centri.
La mostra londinese si avvale di numerosi prestiti dal museo di Alessandria d’Egitto, oltre ad oggetti delle collezioni del British Museum, che aiutano a capire meglio la storia delle città sommerse, specialmente nell’ambito più ampio dei traffici e degli scambi culturali tra Grecia ed Egitto. La scenografia e l’allestimento dello spazio espositivo, avvolgono il visitatore in un’ambiente azzurrino, che tenta di ricreare, attraverso luci e suoni, le profondità marine da cui provengono alcuni dei tesori in mostra.
Questi ultimi, sono indicati da un apposito simbolo grafico e, spesso, affiancati da un breve video del loro ritrovamento. Tra i tesori riaffiorati dalle acque, e pazientemente ripuliti da sali, alghe ed incrostazioni, si possono ammirare una statua colossale della divinità fluviale Hapy, una stele con l’editto del faraone Nectanebo I (gemella di quella scoperta a Naukratis nel 1899), e la statua senza testa di Arsinoe II – figlia maggiore di Tolomeo I – divinizzata dopo la sua morte e venerata sia in Egitto che in Grecia.
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Londra celebra i 40 anni del PUNK

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Shirley Baker, Two Punks drinking cider, Stockport, 1983. © Shirley Baker Estate and Mary Evans Picture Library.

Le note arrabbiate dei Sex Pistols e quelle più impegnate dei Clash, il giubbotto di pelle, la cresta, i jeans scoloriti con la varechina, gli iconici Doc Martens, le spille da balia, e quel motto do-it-yourself, sinonimo di energia, entusiasmo, la voglia di un mondo migliore, la possibilità di formare una band con pochi mezzi e quasi zero erudizione musicale, realizzare le propre idee senza aspettare il permesso di qualcuno, o, semplicemente, dire ed affermare, invece di chiedere. Tutto questo, fino agli estremi dell’anarchia e della violenza, è stato il movimento Punk, nato a Soho nel 1976, e diffusosi in tutto il Regno Unito, fino all’Europa ed Oltreoceano.
 I fattori determinanti per la nascita di questa potente subcultura furono politici ed economici, dalla recessione al Tatcherismo.
A 40 anni dalla nascita del Punk, la Gran Bretagna, e Londra in particolare, dedica il 2016 ad un fitto programma di eventi celebrativi, tra concerti, mostre, conferenze e progetti vari.
Il Guardian ha già avviato un’iniziativa fotografica per capire o scoprire l’eredità di quell periodo, invitando i lettori ad inviare un’immagine di sé, quando erano giovani punk. Nel frattempo, c’è chi, dopo quegli anni turbolenti, ha sentito una chiamata diversa, consacrandosi sacerdote, chi da musicista in una band ha un po’ tradito gli ideali andando a lavorare in finanza, oppure chi ha seguito alte aspirazioni per diventare osteopata, addetto al soccorso in mare, avvocato in cause umanitarie o infermiera veterinaria. Abbandonare gli abiti sovversivi e la cresta, spesso, ha solo rappresentato un cambio esteriore, mentre si è rimasti fedeli al significato intrinseco del punk: rompere le barriere per essere se stessi, in qualsiasi ruolo, dando senso alla propria vita. Il rovescio della medaglia è stato anche il bruciarsi precocemente, tra alcol e droghe, vivendo pericolosamente e perseguendo l’ideale negativo del ‘live-fast-die-young’, che ha mietuto vittime, anche illustri, come Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols.
Di certo il Punk fu una corrente rivoluzionaria, seppur effimera, che diede un impulso molto forte alla società, ed un ruolo da protagonista a tutti coloro che non si sentivano conformi all’establishment medio-borghese, xenofobo e conservatore.
Alla British Library una mostra gratuita celebra il movimento come fenomeno culturale e musicale, attraverso fanzines, copertine di dischi, volantini, tracce audio ed altri interessanti materiali d’archivio. All’esposizione, si aggiungono un negozio ‘punk’ ed un fitto ciclo di conferenze, che prevedono la partecipazione straordinaria di protagonisti della scena dell’epoca, tra cui i rappresentanti di band storiche come i Damned ed i Buzzcocks.
Alla Photographers’ Gallery, dal 23 al 26 giugno, un intero weekend sarà dedicato ad eventi speciali, per mettere in risalto il contesto politico, sociale ed ideologico che portò alla nascita del Punk. Il programma prevede un’installazione digitale con lavori di fotografi indipendenti o tratti dall’archivio della casa discografica EMI, e la mostra di Shirley Baker, con ritratti e scene dell’underground giovanile dei primi anni ’80. Sarà anche proiettato ‘Jubilee’, il film di Derek Jarman, mentre il gruppo post-punk The Raincoats, si riunirà per dare vita ad una speciale performance sia musicale che femminista.
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La City di Londra celebra Shakespeare, a 400 anni dalla sua morte

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Quest’anno si celebrano i 400 anni dalla morte di William Shakespeare. In programma, una serie di mostre, spettacoli ed eventi in tutta la Gran Bretagna per ricordarlo.
Come per molti oggi, la City di Londra potrebbe essere considerata il posto di lavoro di Shakespeare, dal momento che il bardo vi trascorse gran parte della sua vita.
L’antico cuore di Londra, seppur molto diverso rispetto a come si presentava in epoca Elisabettiana, conserva ancora tracce interessanti.
Il contrasto tra vita rurale ed urbana, città e territorio, cultura cattolica e protestante, nonché la coesistenza, spesso problematica, con il diverso o l’altro da sé, si ritrova in molte opere scespiriane.
Nel XVI secolo, Londra era ancora contenuta nelle fortificazioni romano- medievali, anche se la popolazione stava aumentando rapidamente e diventando sempre più diversificata, grazie all’arrivo di immigranti e visitatori. C’erano infatti ugonotti francesi, mercanti italiani e del nord Europa, ebrei sefarditi, e molti schiavi neri liberati dalle galere spagnole.
Londra era una  metropoli colorata, sporca, intrigante e vivace.
L’area intorno a Southwark, vicino al Bankside, essendo fuori dalla giurisdizione della città, era piena di birrerie, bische e bordelli, e il pubblico veniva intrattenuto da artisti di strada o da spettacoli, allestiti in teatri come il Globe ed il Rose.
Oltre a questi, un sito molto importante all’epoca, era il Blackfriars Playhouse. È opinione diffusa che Il Racconto d’Inverno e Cimbelino fossero stati scritti da Shakespeare per essere messi in scena qui, anche se alla fine vennero rappresentati al Globe.
Quando abitava a Londra, Shakespeare forse alloggiò proprio nei pressi del Blackfriars Playhouse, ma non è assolutamente certo, anche se ci restano sule prove documentarie di un acquisto immobiliare avvenuto nel 1613. Invece sappiamo che, nel 1604, il celebre drammaturgo dimorava nella casa di Christopher Mountjoy – un ugonotto francese. Quest’abitazione non esiste più, perché fu distrutta nel grande incendio del 1666, che spazzò via gran parte della città.

La City ha dato il via alle celebrazioni per commemorare il suo illustre abitante, con Shakespeare Son et Lumière , uno spettacolo gratuito di luci e suoni, proiettato sulla facciata della Guildhall.
Inoltre, una targa commemorativa, è stata svelata nel giardino di St Olave Silver Street, nelle vicinanze del luogo dove si ritiene avesse alloggiato il Bardo.

Una delle immagini più significative di Londra ai tempi di Shakespeare è l’incisione di Claes Jansz Visscher, eseguita nel 1616. L’opera è in mostra alla Guildhall Art Gallery fino al 20 novembre. Accanto a questa celebre incisione, si può ammirare anche una versione moderna, realizzata dall’artista Robin Reynolds. La nuova veduta di Londra, include riferimenti a trentasette opere del Bardo, più tre grandi opere poetiche, ed i sonetti.

Al Museum of London, fino al 9 agosto, una piccola mostra gratuita, permette di esplorare la vita quotidiana ai tempi di Shakespeare, attraverso oggetti menzionati nei poemi e nelle opere teatrali. I manufatti esposti comprendono degli anelli d’oro, un orologio, una tazza per una bevanda calda, molto popolare all’epoca, un pettine di avorio.

Attraversato il Tamigi e raggiunta la riva sud del fiume, nel fine settimana del 23 e 24 aprile, si potranno esplorare 37 opere del Bardo in formato video, grazie ad un percorso interattivo di due miglia e mezzo, tra Westminster Bridge e London Bridge. The Complete Walk , un’iniziativa gratuita, include un’applicazione iOS e una mappa scaricabile in pdf dal sito del Globe Theatre, organizzatore dell’evento.

 

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A Londra, la biblioteca di John Dee

IMG_0929L’epoca Tudor rappresenta un periodo molto fervido, caratterizzato da speculazioni intellettuali, un rinnovato interesse per gli studi umanistico-scientifici, e l’espansione imperialistica del regno di Elisabetta I. Tuttavia, è anche un’epoca di contraddizioni, spionaggio ed intrighi.
Nessun intellettuale e studioso incarna il tardo Rinascimento inglese meglio di John Dee.
Un vero esperto universale, Dee è stato un distinto matematico, geografo, astronomo, promotore di una riforma del calendario, cortigiano, medico e precettore di Elisabetta I, ma anche spia, astrologo, alchimista, e sostenitore del potere mistico dei numeri.
Dee era un devoto cristiano, ma fu considerato un mago da molti contemporanei, e persino arrestato, accusato di tradimento ed imprigionato, nel 1555, per aver redatto l’oroscopo della regina Maria.
Dal momento che l’astrologia faceva parte della pratica medica, molti punti di vista del Dr Dee non erano affatto eccentrici per l’epoca.
Le doti straordinarie di questo studioso, hanno ispirato a Shakespeare il personaggio di Prospero, in grado di gestire i fenomeni naturali, nella commedia ‘La Tempesta’.
In tempi recenti, l’intrigante e misterioso Dr Dee appare nel film punk di Derek Jarman ‘Jubilee’ (1978), in una canzone degli Iron Maiden (‘The Alchemist’, 2010) ed è protagonista dell’omonima opera rock di Damon Albarn (2012).
Fellow del Trinity College di Cambridge, insegnante di greco, stimato per le sue conoscenze nel campo della matematica, della navigazione e dell’astronomia, Dee provava una forte fascinazione per l’occulto.
Per circa un ventennio, aveva perseguito delle conversazioni angeliche, con l’aiuto del miglior veggente dell’epoca: Edward Kelley. Intravedendo un mondo ulteriore in uno specchio di ossidiana o in una sfera di cristallo, Kelley aveva dettato istruzioni complicatissime per la costruzione di tabelle nella lingua angelica Enochiana.
John Dee possedeva una vastissima biblioteca privata, tra le più belle d’Europa, che constava di oltre tremila volumi, ed era molto più grande di quelle di Oxford o Cambridge.
I suoi interessi per la scienza, la magia e le conversazioni angeliche, si riflettevano nei volumi e nei manoscritti che la componevano.
Nel settembre del 1583, desideroso di accrescere le conoscenze di filosofia naturale e progredire nelle sue pratiche magiche, Dee era partito per l’Europa Centrale, portandosi dietro solo 800 libri, imballati in casse. A casa, a Mortlake, aveva lasciato tutto il resto: 2.292 libri a stampa e 199 manoscritti. Purtroppo, al suo ritorno in Inghilterra, sei anni dopo, Dee trovò la sua casa vandalizzata, e la sua preziosa biblioteca saccheggiata di numerosi libri di pregio. Inoltre, l’Inghilterra era culturalmente più inospitale di prima, e lo studioso sarebbe poi morto in povertà, nel 1609.
Cosa resta oggi della biblioteca perduta di John Dee?
La maggior parte dei manoscritti e circa un decimo dei libri stampati che la componevano, sono stati rintracciati.
Un centinaio di opere entrarono a far parte della biblioteca di Henry Pierrepont, primo Marchese di Dorchester e, tramite un lascito di famiglia, nel 1680 furono donate al Royal College of Physicians.
Oggi, questa collezione è presentata, per la prima volta nella storia, in una mostra temporanea gratuita.
Una selezione di opere mostra ai visitatori come Dee fosse affascinato dalla crittografia, dalla medicina, dagli oroscopi, e, ovviamente, dalle conversazioni angeliche.
Oltre ai libri, si possono ammirare degli oggetti in prestito dal Museo della Scienza e dal British Museum, tra cui il cristallo che John Dee avrebbe ricevuto dall’angelo Uriel, una sfera di cristallo per la ricerca l’occulto e il contatto con gli spiriti, il ‘disco magico’ per conversare con gli angeli e il celebre ‘specchio magico’ di ossidiana, utilizzato per evocare visioni.

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Sicuramente, l’aspetto più affascinante della mostra, e che ci restituisce qualcosa in più del personaggio, è la possibilità di osservare come John Dee annotasse i suoi libri, con grande entusiasmo (sembra dormisse solo quattro ore per notte, devolvendo il resto del suo tempo allo studio). Dee scriveva appunti ai margini dei volumi, utilizzando simboli, come piccole mani, dall’indice uncinato, per segnalibro, ed aggiungendo disegni, più o meno elaborati, per illustrare quei passaggi che lo avevano colpito.

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Al British Museum, gli acquerelli italiani di Francis Towne

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Francis Towne, “The Roman Forum” (1780), Nn,3.15. Credit: The Trustees of The British Museum

‘Grazie per il tuo voto alle elezioni degli associati e per l’amicizia che mi hai dimostrato, ma tu mi chiami un maestro di disegno di provincia! … Non ho mai avuto intenzione di vivere la mia vita, se non professandomi un Pittore di Paesaggio.’
Con queste parole, nel 1803, l’artista inglese Francis Towne si rivolgeva al suo amico Ozias Humphry, dopo aver invano richiesto, alla Royal Academy, di aprirgli le porte come membro associato. Nel 1805, il pittore, ormai sessantaseienne, decideva di allestire una personale in una galleria londinese, nei pressi di Grosvenor Square. Tra le varie opere, figuravano quelle che Towne stesso considerata fondamentali nella sua carriera di paesaggista: gli acquerelli dipinti durante il Grand Tour del 1780-81. Alla sua morte, nel 1816, tutti i disegni e gli acquerelli furono donati, per sua espressa volontà, al British Museum. Ma gli evocativi paesaggi italiani, gli scorci di Roma e della campagna laziale, i panorami inglesi, caddero presto nel dimenticatoio. Dopo l’eccitante espressività di Turner, ai critici vittoriani piacevano di più quegli acquerelli di paesaggio che fossero colorati e drammatici. I vedutisti e ‘topografi’ del XVIII secolo, apparivano loro monotoni e spenti. Fu solo grazie allo studioso Paul Oppé, e ad un suo articolo su Francis Towne, apparso nel 1920, che l’artista, con il suo uso magistrale di tinte profonde, dal bruno, al viola, al marrone brillante, fu improvvisamente riscoperto e rivalutato. Ora, nel bicentenario della morte, una bella mostra gratuita, al British Museum, celebra l’abilità e sensibilità di questo artista, esponendo la serie completa dei suoi acquerelli italiani, che riassumono, con eleganza, il gusto e l’interesse per i viaggi di istruzione. Formatosi a Londra, Towne, nel 1763 si trasferisce ad Exeter, dove si guadagna da vivere insegnando disegno a ricchi e nobili dilettanti. Dopo un breve viaggio in Galles, nel 1777, si specializza in acquerello e, nel 1780, intraprende il Grand Tour, con destinazione Roma. Il soggiorno si rivela altamente produttivo. Towne passa anche un mese a Napoli, nel 1781, assieme al pittore Thomas Jones. Nonostante una febbrile attività, che lo vede lavorare al fianco di altri artisti viaggiatori, come John ‘Warwick’ Smith, e il suo vecchio amico di Londra, William Pars, per Francis Towne il percorso sembra più importante della destinazione. Si sofferma a ritrarre la campagna romana, registrando abilmente rami e fronde, boschi e radici aggrovigliate, fino agli alti pini di Roma, che si stagliano dietro muri screpolati. E poi, naturalmente, c’è Roma, una città sospesa nel tempo, sconosciuta al turismo di massa, con le rovine imponenti del Colosseo, del Foro o delle Terme di Caracalla, testimoni mute e quasi deserte, del disfacimento di un grande Impero, popolate solo da erbacce, un carretto, una tenda, o qualche sparuta figura, profilate contro un cielo quasi piatto. Il viaggio di istruzione è un impegno creativo. A Roma Towne tenne un diario meticoloso, oggi perduto, che trova un’eco nelle iscrizioni, spesso prolisse, aggiunte sul retro dei suoi disegni. A differenza di altri artisti, Towne, pur scoprendo idee compositive, acquistando una monumentalità alla Piranesi, e scambiando esperienze con altri pittori, mal sopporta il soggiorno italiano e decide di tornare in Inghilterra. Qui cercherà di incorporare l’esperienza romana, nella realizzazione dei paesaggi successivi, anche se le committenze, via via, andranno scemando, e, per il resto della sua vita, dovrà inseguire invano il riconoscimento della Royal Academy, e sempre lottare per rivendicare il suo status di artista serio. Nati come studi ed esercizi, gli schizzi italiani sono oggi il suo testamento.

 

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A Londra, una mostra sulla Rivoluzione Francese

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La Rivoluzione francese ha rappresentato un cambiamento socio-politico radicale in Francia e ha esercitato un’enorme influenza sull’Europa. 
La Rivoluzione ha attraversato diverse fasi, dagli eventi cardine dell’estate 1789 (la creazione di una Assemblea nazionale dei rappresentanti del Terzo Stato – la gente comune -, la presa della Bastiglia da parte della folla parigina e l’approvazione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino ) alla Costituzione formulata dall’Assemblea nazionale nel 1791 e, successivamente, l’abolizione della monarchia, nel 1792.
Queste diverse fasi della rivoluzione furono tutte parte di un processo di disgregazione, in cui il vecchio ordine sociale crollò e una nuova struttura emerse, affermando idee di sovranità popolare, uguaglianza e libertà.
Diverse ragioni possono aver contribuito alla rivoluzione francese: un forte bisogno di cambiamento radicale, il peso del debito, il malcontento e la disuguaglianza sociale, l’ostinata resistenza dagli aristocratici contro ogni tentativo di riforma, l’aumento dei prezzi del pane, l’esempio della guerra di indipendenza americana (1775-1783), e l’emergere di una borghesia di primo piano.Tuttavia, Robert Campbell [*] ha sottolineato che “non esiste una teoria generale del perché sia avvenuta la Rivoluzione Francese”.
La caduta della Bastiglia e, nel mese di agosto 1789, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, segnano la fine del feudalesimo e i privilegi della nobiltà e del clero. La sovranità si trasferisce alla Nazione, in contrasto con l’assolutismo del re.
Revolution under a King: French Prints, 1789-92 è una mostra gratuita allo UCL Art Museum , che presenta una selezione di stampe, realizzate nei primi anni della Rivoluzione. Curata dal professor David Bindman e dal dottor Richard Taws, l’esposizione mette in luce come gli eventi rivoluzionari siano stati comunicati in tutta Europa attraverso la stampa e la potente combinazione di immagine e testo.
La mostra prende in esame i primi tre anni della Rivoluzione, quando il re era ancora sul trono, e si articola attraverso un insieme di stampe a colori, opere grafiche, ceramiche ed anche una selezione di medaglie.
Si tratta realizzazioni immediate e spontanee, che nascono a ridosso degli eventi, e producono un impatto diretto sulle masse. Il re, inizialmente, è un monarca istituzionale, che ha giurato fedeltà alla Francia e alla legge della Federazione, e che, nelle stampe, indossa il berretto frigio.
Tuttavia, nei tre anni che seguono la caduta della Bastiglia, Luigi XVI, non smette mai di sperare di riavere i suoi poteri. Il fallimento del piano di fuga verso il Belgio e il proclama di Brunswick, con cui la Prussia minaccia la Francia di invasione, lo mettono in cattiva luce. Ormai prigioniero, con la sua famiglia, prima nel palazzo delle Tuileries, poi nella prigione del Tempio, alla proclamazione della Repubblica, perde l’ultima parvenza di regalità, per divenire il cittadino Luigi Capeto.
Un cittadino scomodo, che verrà giudicato colpevole di alto tradimento dalla Convenzione Nazionale e ghigliottinato il 21 gennaio 1793.

 

[*] Robert Campbell,“The Origins of the Revolution in focus”, in Peter R. Campbell, ed., The Origins of the French Revolution, Palgrave, 2006, p 9.